La rotta...

La cosa più importante per chi non ha potere è avere almeno un sogno
Da "La terrazza proibita" di Fatima Mernissi

sabato 31 dicembre 2016

Buon 2017. Io riparto da qui.



Nel 2016 mi sono state portate via le “cose” più care.
Di tante altre “cose” me ne sono liberata io.

Ma ho trovato nell'essere estranea o straniera, altre “cose” belle, altri modi di guardare e perché no, di vivere. Le “cose” belle di questo anno si contano con le dita di una mano, ma ci sono tante persone intorno per le quali provo immensa e sconfinata gratitudine.

Aspetto questo 2017 e riparto, ancora una volta, da qui.

Da due cuccioli di uomo da veder crescere, da un nido sempre presente, da una vita da costruire insieme.

Da amiche vere, “fimmine”, da progetti da immaginare, da sogni da realizzare.  Da donne che corrono con la natura selvaggia, e che si fermano per brindare.  

Dalle scelte di dignità, e di libertà. 

Da appuntamenti già segnati in una agenda nuova tutta colorata. Da una comunità che mi ha accolto, dal nostro riconoscerci. Dai ponti che si costruiscono, e da uno in particolare.

Dalla paura che solo chi la prova sa, dal coraggio che so adesso, di avere. Dalle poche persone che hanno capito, e che ci sono state.

Dalla mia coerenza, dalla mia forza. Dalle lacrime che ho versato, e da quelle che ho trattenuto.
Dai sorrisi, e dalle risate che ho condiviso.

Dalle macerie di un impegno di una vita, dal desiderio di ricostruire. Dalla mia comunità di memoria, dal mio desiderio di impegno. Dalle delusioni più forti e dalle ferite, ma anche dagli abbracci.

Da chi mi protegge, mi guida, mi ha risollevata dal brutto per ricondurmi nel bello.

Dalle idee, che vanno avanti comunque, nonostante i veti.

Da chi mi ha preso per mano, lasciandomi camminare da sola.

Dal mio essere donna, al Sud.

Dal mio desiderio di lottare contro il potere che controlla desideri e speranze, dalla voglia di scoprirmi soggetto al margine con tutte le possibilità. Dal mio fare politica, dal piacere nel fare e vivere la democrazia.

Dalla terra che mi ha adottato e che è famiglia.

Dalla ricerca, dalla scrittura, dallo studio, dalla passione, dall’università.

Da questo blog.

Dai “miei” studenti e dalle “mie” studentesse, che mi hanno scelta.

Dal mio femminismo ritrovato.

Da matite colorate e da libri da leggere, e da scrivere.

Dalla mia terra, che continuo ancora ad amare.

Dalle sorelle che la vita mi ha messo accanto.

Da chi scelgo e da chi mi sceglie, ogni giorno.

Da mio fratello, che guarda l’orizzonte, e lo fa guardare anche a me.

Auguro a me stessa di ripartire, e di riconoscere gli attimi di felicità.
Buon anno allora, che sia un anno pieno di bellezza!!


lunedì 26 dicembre 2016

Cose belle!


Non scrivo da più di un mese, e mi dispiace. E’ stato un mese pieno di scadenze e cose belle da fare e da vivere. Finalmente seduta metto in ordine i pensieri e proverò a scrivere quanto delle ultime settimane ha attivato percorsi di riflessione e approfondimento, con un minimo di ordine cronologico!

Tra le cose belle delle ultime settimane, il convegno “Esplorare i territori mentali. L’eredità di Fatema Mernissi”. (Info e programma





“Abbiamo fatto una cosa bella”, ce lo siamo dette con Valentina Fedele alla fine di questa due giorni carica di confronto, condivisione, ricerca e studio. Bella perché volevamo mettere in comune esperienze e mondi diversi, facendo dialogare tra loro discipline e ricerche a partire dal pensiero di Fatema Mernissi; bella perché utilizzando le reti informali abbiamo attivato altre reti spontanee e libere che di sicuro continueranno a crescere. Bella, perché intorno a un tavolo le generazioni hanno dialogato nella bellezza e nell’arricchimento reciproco. Negli occhi la curiosità di chi ha sete di sapere, lo stupore di ascoltare, la gioia del riconoscersi in uno spazio condiviso. Ma bella soprattutto perché abbiamo vissuto la possibilità di vivere una “accademia” diversa, senza ansie da giudizio, senza categorie, senza confini, come la stessa Mernissi forse amerebbe dire. Abbiamo immaginato un modo diverso di condividere saperi e esperienze, nella circolarità di un momento denso di contenuti. Abbiamo dimostrato quindi, che è possibile, nonostante la fatica della “ricerca precaria”, costruire quell’idea di università e ricerca che ci tiene radicati e appassionati.


Generazioni. Centro di Women's studies Milly Villa 

Le parole giuste sono sue, a questo punto, sono proprio le sue.

"Dignità è avere un sogno, un sogno forte che ti dà una visione, un posto tuo nel mondo, là dove il tuo operato conta e come. Sei dentro un harem quando il mondo non ti vuole, quando il tuo operato non fa la differenza, e ciò che fai non serve. Sei dentro un harem quando il pianeta gira veloce e te ne stai sepolta fino al collo nel disprezzo e nell'oblio. Nessuno può cambiare tutto questo e far girare il mondo in senso opposto, sta a te soltanto. Se ti elevi contro il disprezzo e sogni un altro mondo, sarà modificato il senso della terra. Ma quello che devi evitare ad ogni costo è che il disprezzo ti penetri dentro. Quando una donna crede di non valere nulla piangono i passerotti. Chi li difenderà sulla terrazza, se un mondo senza fionde, non lo sogna nessuno?"

Fatema Mernissi, La terrazza proibita

martedì 22 novembre 2016

Riflessioni a partire dal bestiario di una giovane donna impegnata







E niente, proprio non gli va giù. Ad alcuni uomini proprio non va giù che ci sia una donna, magari giovane, a occuparsi e magari impegnarsi nel grande mondo del movimento anti-‘ndrangheta in Calabria. 
Sì, lo so. Quello che sto per scrivere farà “mormorare” in molti, ma un po’ per ridere ma molto sul serio, voglio condividere un pezzettino delle tante cose che mi sono sentita dire e degli atteggiamenti vissuti- e subiti-  negli ultimi dieci anni. 
L’occasione è arrivata oggi, quando l’uomo in questione, evidentemente a disagio dinnanzi all’ennesima richiesta di silenzio da parte mia e dei suoi colleghi, probabilmente turbato dal mio ricordare le vittime di ‘ndrangheta e il ruolo della memoria nella didattica radicata nei territori… ha deciso di interrompermi con modi e parole poco consone, diciamo così, al contesto in cui ci trovavamo. Rimproverandomi di non essere in linea con le sue “aspettative” ha, casualmente, deciso di contestare me e non il collega (adulto maschio) che mi aveva preceduto sulla stessa linea. 

Eh sì, una giovane donna che ti chiede di prestare attenzione, e che magari se la prende pure l’attenzione, proprio non si sopporta. Rigorosamente dandomi del “tu”, perché il prof si sa, è maschio. Ma io no, io sono “la signora” o "la ragazza" e poco importa se magari, in modi e tempi diversi siamo anche colleghi.
Ma di reazioni così, in questi anni ne ho raccolte tante, dalle più ridicole alle più pesanti. In questo breve bestiario vorrei condividerne alcune.

Da quella classica “ma chi te la fa fare a fare antimafia, dovresti pensare alla famiglia”, che la risposta poi è sempre la stessa- oltre alla gloriosa “fatti i fatti tuoi” - “stai tranquillo, che penso io alla mia famiglia”.

E siccome poi, è necessario ricollocarci nei ruoli “classici”, su tutte segnalo questo consiglio, (purtroppo però detto da una donna) “tu, tu non devi fare così. Non devi prendere le cose così di petto. Ma in fondo è così, è perché non sei mamma che reagisci così”. No, reagisco così perché non riesco a stare zitta davanti alle ingiustizie e scorrettezze. Magari è perché ho un brutto carattere, non perché non ho dei figli.

Ma nella dinamica sempre viva tra ragione e sentimento, come non ricordare tutte le volte in cui mi è stato detto “Sei troppo emotiva” solo perché le delusioni a volte arrivano a ferirti, o ancora “mamma mia quanto la esageri”, oppure “come la fai lunga” o ancora “sei stanca. Devi prenderti un periodo di riposo, lo dico per te”. Caro mio, lo stai dicendo per te, non per me.

Perché sì, se manifesti nero su bianco il dissenso, o un disagio o una preoccupazione (rispetto a situazioni oggettivamente gravi) le ragioni sono sempre legate al mio essere irriducibilmente un corpo con una mente che non riesce a controllare l’emotività. Sempre. Guai poi a far notare che magari qualcosa poteva essere evitato se solo ti avessero ascoltato. Non c’è scampo, dare ragione non è virile, chiedere scusa poi…. Non ne parliamo proprio.

Il classico dei classici è poi “Ma lo sai con chi stai parlando?”, alla quale si può rispondere con un educato “guardi, mi dispiace non so chi sia” o con un sano “non so chi sia, so solo che è un grande maleducato”. E là, lo ammetto, la soddisfazione fa la differenza.

Altrettanto fastidioso è l’atteggiamento paternalista... “ma che fai, in giro da sola?” oppure “tu sei intelligente, brava, ma vivi le cose con troppo coinvolgimento”. Ora, io vorrei proprio conoscere chi riesce a essere militante antimafia senza coinvolgimento, chi riesce a essere appassionato senza esserlo. Se lo si è, distaccati e freddi, facciamocene una ragione: non tutti abbiamo gli stessi obiettivi.

Poi ci sono quelli che ti guardano malissimo se entrando in una sala piena di gente, magari qualche rappresentante delle istituzioni – e in tanti anni si costruiscono relazioni istituzionali formali ma alla pari- viene incontro per salutarti, educatamente. E là si riesce a dare il via a tentativi di delegittimazione del rappresentante- se proprio ancora dopo non li calcola- o come spesso, di chi ha la colpa di avere costruito qualcosa nei territori. Perché anche qui, l’eteroriconoscimento è tutto. Esisto perché ho qualcuno che mi riconosce, o che almeno mi riconosce più di te, trentenne rompiscatole.
Poi ci sono i maestri per eccellenza, quelli che in una volta, riescono a farti magicamente sparire come se non esistessi, o non fossi mai esistita (né tu, nè il tuo operato). E qui davvero ho visto magie senza pari: ho provato con metodo rigoroso, a dire qualcosa, ottenendo nessuna reazione (se una non esiste, non esiste); ho provato a far dire la stessa cosa a un uomo, oppure a una donna legittimamente riconosciuta come figura: risultato, elogi alla grande, magnifica idea. Provato.
Conseguenza, una deresponsabilizzazione degna di nota. Dinanzi a fatti gravi e dinnanzi a una esplicita richiesta di aiuto si può anche dire “Se ha bisogno di una amica che le tiene la mano vai tu, io non sono suo amico”… ma quale mano? Quale amico? Cari miei, io le amiche e gli amici me li scelgo da sola.
Ma siccome di relazioni di genere si parla, ecco i non curanti (e ahimè le non curanti) delle situazioni sentimentali che dicono “parli così perché sei gelosa” e di chi? E di che? Ho detto che secondo me sta sbagliando in quella cosa, mica mi importa con chi la stai facendo!

Poi ci sono le diversità di trattamento. Per esempio, se io scrivo un libro “ha approfittato di questi anni per farsi i soldi” se a scrivere un libro è un uomo “è un contributo importante per la nostra terra”.
E poi diciamolo, una donna per essere ascoltata deve dire meglio, per essere riconosciuta pubblicamente deve fare meglio: sempre a dimostrare di essere all’altezza, di esserne capace, o ancora di portare avanti quell’idea di purezza necessaria solo alle donne. Perché se un uomo sgomita e fa carte false lo fa perché ci tiene, se lo fa una donna, perché è ambiziosa.

Al confine tra tutto ciò si collocano le descrizioni sulla persona, e per una come me che porta avanti l’idea estrema dell’essere femminile nella sfera pubblica, non passano inosservate le battute del tipo “ma come sei truccata, chissà quanto tempo ci hai messo, certo che ne hai di tempo”. Tantissimo tempo, vorrei rispondere, tempo da perdere proprio. Per non parlare degli accostamenti al maschile “sei forte come un uomo” e mi viene sempre da rispondere “no, sono forte come una donna”, oppure l’intramontabile “sei proprio una donna con gli attributi” e là la risposta è sempre quella. “sì, ho delle grandi ovaie”. E calano silenzi imbarazzanti.

Al di là dell’ironia, posso assicurare che ho riportato fatti realmente accaduti. Cari maschietti, fatevene una ragione. Esisto, e come me siamo in tante. Se vi dà fastidio che ci poniamo alla pari, o che come spesso accade tra le persone, ne sappiamo più di voi, o ancora che abbiamo ruoli riconosciuti, o che a volte abbiamo ragione, che abbiamo costruito tanto…il problema non è nostro. E non è nemmeno vostro. Non è un problema. Si può vivere, e tanti altri uomini ce lo dimostrano ogni giorno, impegnandosi ognuna e ognuno nel suo, tranquillamente. Non è necessario che abbiate un controllo su di noi, e nemmeno su di voi. Ho parlato di un caso estremo, come quello del fare antimafia, ma lo stesso vale per ogni impegno nella sfera pubblica. Perché sono sicura che tante giovani donne un po’ col sorriso e un po’ no, si sono riconosciute in questo post: nel lavoro, nella politica, nell’impegno civile.

Certo, sto parlando di una bella minoranza. Per uno che si comporta così, altri cento, vengono a chiederti scusa, sinceramente. Come è accaduto oggi. Perché se esiste quel modello, è per fortuna- o meglio dire- grazie a tutte le lotte quotidiane delle donne,  assolutamente residuale. Ma vale la pena raccontarlo, soprattutto in questi giorni in cui genere e generazione vengono usate come parole strumentali a altri fini. E mentre scrivo guardo in tv la serie “la mafia uccide solo d’estate”, che con magistrale ironia, decostruisce immaginari e modelli mafiosi. Anche di genere. E come chiudere questa riflessione se non con quello che lo zio dice a proposito della nipote “lei, è strana. È femminista. Ma poi ci passa!”.


mercoledì 16 novembre 2016

Un anno in viaggio con Onore e Dignitudine







Onore e Dignitudine è nato dalla passione radicata e rafforzata nell’amicizia, dalla profonda condivisione di spazi e tempi di crescita, di noi tre donne del sud, Ludovica Ioppolo, Norma Ferrara e io. 

Scrivere di ‘ndrangheta non è cosa semplice, non lo è perché si è sempre attenti a non cadere nel pericolo di continuare a costruire immaginari, stereotipi e a non cadere nella trappola altrettanto pericolosa di trovare soluzioni e dettare ricette. Per noi, lo stile dell’antimafia sociale, è stato in primo luogo quello di continuare a cercare domande, ad ascoltare il territorio, le storie, le piccole storie per decostruire nella teoria e nella pratica, quella percezione del potere ‘ndranghetista tradotto nella vita quotidiana. 

Onore e dignitudine nasce da qui, dalla consapevolezza che, come scrive Renate Siebert “un lavoro di analisi che non sfugga alle fatiche interpretative della complessità fa esso stesso parte della lotta alla mafia; l’appiattimento, invece, sulle descrizioni di ciò che appare nasconde spesso una tacita complicità con le cose così come stanno” (Siebert, 2008). 

In punta di piedi, abbiamo raccontato le piccole storie di donne e uomini, lo abbiamo fatto con gli occhi delle ricercatrici, con lo sguardo femminile e femminista, con la passione delle donne del sud, con il rigore del giornalista, con la sana rabbia delle militanti. Perché siamo questo, e abbiamo vissuto la bellezza di viaggiare durante quest’anno insieme a Onore e Dignitudine, con il carico di storie, di prospettive, di decostruzioni, di memoria. Perché così, in ogni tappa abbiamo nel nostro piccolo voluto portare con noi la speranza e la dignità dei familiari delle vittime che abbiamo incontrato, e con loro, le storie dei nostri conterranei. A loro, il nostro profondo grazie per averci fatto sentire, ogni giorno, parte di questa comunità di memoria. 

Come sempre quando ci sono date importanti, a un anno dalla pubblicazione, è bello ricordare tutti i luoghi, i tempi e le persone che abbiamo vissuto. A chi ha organizzato, a chi c’è stato, a chi ha letto, a chi ci ha accompagnato il nostro grazie. 
  • 22 Novembre Cosenza, Teatro dell’Acquario 
  • 9 Dicembre, Roma Sparwasser 
  • 30 Dicembre Sommatino con le e associazioni "Filippo Terranova", "Gispo Donne" e dell'amministrazione comunale.
  • 9 Febbraio Perugia con verso il 21 marzo con Libera Umbria 
  • 24 Febbraio Catanzaro, Corso di Sociologia Umg e Fondazione Umg 
  • 14 Marzo Lentini “100 passi verso il 21 marzo“, giornata della memoria di tutte le vittime delle mafie dell’associazione Libera.
  • 15 Marzo Catania “100 passi verso il 21 marzo“, giornata della memoria di tutte le vittime delle mafie dell’associazione Libera.
  • 6 Maggio Vibo Valentia con Libera Memoria Calabria 
  • 7 Maggio Crotone con Libera Crotone 
  • 11 maggio A Taurianova ospiti dell'Azione Cattolica e della amministrazione comunale
  • 19 Maggio Roggiano Gravina nel percorso "Comunicare la legalità" della Cooperativa sociale Ohana e dell'associazione sociale e culturale "Il grillo parlante".
  • 19 Maggio Itgc San Marco Argentano 
  • 8 Giugno Lamezia Terme con il Il Centro "Riforme - Democrazia - Diritti"
  • 24 Agosto Santa Agata D’Esaro iniziativa “Calabria tra le righe”
  • 9 Settembre- Università Itinerante Unimi-Cross- Isola di Capo Rizzuto 
  • 7 Ottobre Lappano iniziativa “Libriamoci a Lappano”
Un anno in giro, in contesti diversi e modi diversi, un anno in cui forse avremmo voluto qualcuno in più accanto a noi, in cui abbiamo a volte sentito la mancanza proprio di quella comunità di memoria in cui onore e dignitudine è nato. 

Un anno davvero pieno di contenuti, riflessioni, emozioni, di idee. Di persone incontrate, di mani strette, di viaggi. Le piccole storie di onore e dignitudine sono state accolte con una cura che non ci aspettavamo, segnale forse che mai come ora sia necessario mettere a lavoro le categorie, rintracciare nuovi modi per leggere il fenomeno mafioso. Innumerevoli le immagini che abbiamo in testa, da Cosenza a Roma, da Sommatino a Catania, da Perugia a Isola capo Rizzuto. Diversi contesti e diversi modi in cui leggerlo. E poi la ricchezza delle ragazze e ragazzi da Perugia a San Marco Argentano, delle studentesse e degli studenti dell’università di Catanzaro. “Ho letto il libro e ho capito che sono una donna libera, che non posso stare dietro ai comandi del mio fidanzato” mi ha detto a fine incontro una ragazza di un liceo nella provincia di Cosenza. “Grazie, perché non mi rendevo conto prima che la ‘ndrangheta fosse così vicina”, ci ha detto un ragazzo e ancora “grazie, con il vostro libro mi avete fatto venire voglia di impegnarmi”. Commenti così potremmo riportarne tanti, molti sono scritti nei nostri quaderni, negli appunti di viaggio. 

E’ stato un anno duro per noi tre, intenso ma vissuto insieme. Onore e dignitudine non si ferma, continueremo a viaggiare, qualcosa di importante è cambiato, ma noi ci siamo. 
Il ringraziamento più grande va allora a noi tre, alle nostre scelte di dignità, alla nostra amicizia, alle nostre ferite dalle quali siamo già ripartite. Al nostro essere donne, amiche, del sud. A voi, Ludovica e Norma. 



mercoledì 2 novembre 2016

“Buon impegno per la libertà”




“Pronto”
“Buongiorno, sono Sabrina Garofalo, cercavo… Tina Anselmi”
“Sono io…”
Nei miei anni di impegno associativo il tema della lotta per la libertà è sempre stato trasversale e presente in ogni iniziativa. E così che un bel po’ di anni fa, insieme a un gruppo “sovversivo” interno all'associazione di cui facevo parte, decidemmo di metterci a cercare un contatto con Tina Anselmi, per avere con lei un momento di confronto e di formazione (eh sì… è sempre stato un mio cruccio) sui temi della partecipazione e della liberazione da ogni forma di potere. Dopo aver cercato negli elenchi ufficiali, sui siti istituzionali, un po’ per gioco, un po’ per curiosità decidemmo di cercare il numero in quel luogo che ormai sembra antico: l’elenco delle pagine bianche. Anselmi Tina, Castelfranco Veneto. C’è un numero, provo. 
E’ lei che mi risponde, io balbetto, so di avere dall'altro capo del telefono un pezzo importante della storia, della mia storia. La sua voce mi accoglie, parliamo della iniziativa che volevamo organizzare, e da lì parliamo delle giovani donne, della partecipazione associativa come forma di impegno politico, della democrazia. 
Vivo il grande privilegio dell’insegnamento, e ho la possibilità di raccontare questa storia alle studentesse e agli studenti del corso di Sociologia generale. Parlo della storia delle donne, della contro-narrazione necessaria se si vuole conoscere e andare alle radici della democrazia, della libertà. Mostro loro le foto delle partigiane, leggo loro le loro testimonianze, come queste parole di Tina Anselmi :
“Mi hanno chiesto di fare la staffetta e, quando la Resistenza è esplosa con tutta la sua forza, con la bicicletta facevo centoventi chilometri ogni giorno. Una delle conseguenze della guerra era un'usura fisica. Eravamo consapevoli che se l'Italia non avesse partecipato ai processi di Liberazione del nostro Paese avrebbe avuto delle conseguenze negative. Quando De Gasperi andò a Parigi per tutelare gli interessi dell'Italia disse agli Alleati che non era vero che tutta l'Italia fosse fascista; c'era un'Italia che combatteva per la libertà, che voleva conquistarla insieme agli alleati. Era difficile potersi salvare. Chi era disposto a rischiare la propria vita, il proprio futuro pur di offrire aiuto agli alpini, artiglieri, agli ex prigionieri? Chi si prestava per salvare questi giovani, che erano poi i nostri compagni di scuola, i ragazzi con i quali avevamo combattuto sino a pochi giorni prima? Se volevamo provare il rischio della risurrezione, i partigiani salivano in montagna più per salvare noi che loro stessi. Quei giorni e mesi sono stati terribili, dolorosi, li abbiamo vissuti non sapendo mai se un domani avrebbero rappresentato per noi la libertà o una fuga, che ci permetteva però di guardare al domani con più speranza. Bisognava scrivere la parola «fine»! Noi, come partigiani, c'eravamo assunti il compito di scrivere questa parola. Fine alla guerra, fine ai combattimenti, alle torture, fine ai dolori e alle tragedie che si vivevano nei nostri paesi. Tutto questo lo abbiamo voluto, l'abbiamo pagato, perché questo potesse realizzarsi.”
Sono incuriosite e incuriositi, non conoscono questa storia. Domandano, parliamo della Resistenza, dei giovani calabresi partiti per lottare contro il fascismo, da qui verso le Alpi. Le ragazze cambiano lo sguardo, spero intuendo che se sono sedute tra quei banchi, lasciando le loro famiglie nei piccoli paesi dell’hinterland catanzarese, è anche per giovani come Tina.

C’è un filo che lega il passato, a questo presente, che passa attraverso quella telefonata. Dal micro al macro, come sempre. C’è quel legame storico, quella eredità che ci sentiamo addosso, c’è quel pezzo di storia da portare avanti con determinazione. C’è la storia della nostra democrazia, della nostra Costituzione. Oggi pensare a Tina Anselmi, proprio oggi poi in Calabria, ha il sapore della amarezza più profonda. 

Come ci siamo arrivate a questo punto? Me lo chiedo, e ce lo chiediamo in molte. 

C’è l’umiltà profonda, (non quella che è sinonimo di mortificazione verso gli altri) di una donna con la sua storia che risponde al telefono, che si scusa mille volte per non poter venire in Calabria perché “non sto molto bene”, c’è la cura, attenta della scelta delle parole di incoraggiamento, di augurio, di speranza verso una lotta che ormai è nostra. Sentirmelo dire da lei, lo assicuro, è esperienza che ancora commuove. Da giovane, da donna, da nipote del partigiano Eugenio Garofalo. 

“Buon impegno per la libertà”, mi salutò così… non lo dimenticherò mai.
“Anche nei nostri paesi abbiamo voluto ricordare qualcosa che io credo debba avere un valore per sempre: se vogliamo non rivivere queste tragedie dobbiamo esserci, non c'è altra strada. Se vogliamo che la democrazia cresca nel nostro Paese, dobbiamo tutti partecipare a questa crescita, a questo cambiamento. Se ci siamo vinceremo nel nome della libertà e della pace” Tina Anselmi

martedì 25 ottobre 2016

“In Calabria la mia vita è cambiata", con Marisa Manzini

Presentazione di "Onore e Dignitudine" a Vibo 

“In Calabria la mia vita è cambiata. Rimasi affascinata da una terra ricca di mille contraddizioni. Una terra che mescola il clima caldo e le onde frizzanti del Mediterraneo con l’asprezza e la fierezza dei monti. Ma l’ampiezza degli spazi naturali, la superbia di una natura libera e prorompente, deve fare i conti con presenze umane violente e sprezzanti, che impongono spazi chiusi, ritagliati, sorvegliati, in cui gli avvenimenti sono registrati e insistentemente controllati. Dove le malignità degli uomini non risparmiano neppure i bambini. 
Deve fare i conti con un potere mafioso esercitato senza interruzione e senza scampo.”


Queste parole sono state scritte da Marisa Manzini nella prefazione di “onore e dignitudine” ricerca condotta da Ludovica Ioppolo, Norma Ferrara e me negli ultimi anni. Non abbiamo avuto dubbi su chi fosse la persona giusta per introdurre il senso del nostro libro, e non ci siamo sbagliate. Solo una donna come lei poteva trovare queste parole per descrivere la Calabria, solo una persona con lo sguardo in cerca di giustizia poteva parlarci così di potere della 'ndrangheta. 
Magistrata, ora Procuratrice Aggiunta della Procura della Repubblica di Cosenza, non ama parlare di quello che le sta accadendo. Un aumento della tutela, “messo in conto” come dice lei per chi sceglie di fare il magistrato. Ma uno sguardo più attento non può non capire che si sta giocando anche un’altra partita in queste ore, in un campo che è quello del potere che si traduce in dinamiche di mancato riconoscimento nelle relazioni istituzionale- da magistrata- e nelle relazioni di genere- da donna. 
Le parole pronunciate durante l’udienza del processo “Black money” contro Marisa Manzini suonano come una minaccia diretta in un contesto di potere tutto al maschile. Per cui alla manifesta intenzione di ribadire la supremazia sulla vita delle persone, si associa quel latente messaggio che consiste nel ribadire che essere donna significa non avere il diritto di parola, e quindi di esistere.
Ancor di più, se chi parla era il marito di una donna suicidata, Tita Buccafusca, vittima del potere della ‘ndrangheta in quel confine incerto tra la vita e la ndrangheta, che si era rivolta proprio a Marisa Manzini nella sua scelta- dolorosa, tormentata e purtroppo non definitiva- di libertà. 
Tutto questo, agito in un contesto tipicamente maschile, quello dei tribunali: luoghi declinati al maschile, in cui si muovono relazioni trasversalmente attraversate dal potere. Perché la ndrangheta è uno spazio di potere maschile, che esclude le donne, che esistono solo perché legittimate da una presenza e da un potere maschile. La 'ndrangheta traduce il suo potere totale dai territori ai corpi, ai desideri e agli affetti, sui corpi delle donne come conquista coloniale, e la cronaca di oggi continua a dimostralo duramente. 
Il silenzio dei giorni successivi corre il rischio di legittimare e rafforzare questo insieme di stereotipi, di far passare in secondo piano quanto accaduto. 
Perché se il pudore di Marisa Manzini lascia una grande lezione di dignità e serietà, il silenzio della società civile spaventa. Non si può correre il rischio di sminuire quanto accaduto, non è solo “una questione di donne”, come si è soliti tirar fuori in certi casi. 
Subire una minaccia, intimidazione significa fare i conti con il proprio essere ed esserci, e lasciare sole chi ne è vittima è un rischio e una responsabilità gravissima. 
Per la dottoressa Manzini non c’è stata nessuna campagna sui social network, poche manifeste solidarietà, che seppur a niente servono, inducono alla riflessione e alla presa di responsabilità. Forse perché in pochi conosciamo la storia e il contesto in cui ciò è avvenuto, forse perché a poco a poco e senza fuochi d’artificio, questa procuratrice sta smuovendo un po’ di equilibri. Forse per indifferenza o forse perché è donna, e allora è più facile fare una battuta o sminuire il suo operato. 
Io penso che donne come Marisa Manzini possano solo fare del bene e fare bene alla nostra terra. Perché nella dignità silenziosa del lavoro quotidiano, nell’accoglienza di uno sguardo, nella bellezza del confronto, nella “cura del lei” nelle relazioni, dimostra a tutte e tutti che le parole di un uomo di ‘ndrangheta non valgono più nulla, perché sono dette da chi ha sempre meno consenso, e quindi, sempre meno potere. 

Per me la solidarietà verso Marisa Manzini non è un atto dovuto, né una parola al vento: io sono solidale nei termini più belli che questo concetto ci permette. Perché sento di camminare insieme, di essere dalla stessa parte, di essere insieme alle tante donne in Calabria che lottano contro questo potere. 


sabato 15 ottobre 2016

E' la pratica che rompe la grammatica...di genere!




Il Women and Gender Studies Centre Milly Villa esiste dal 1997, frutto di un percorso sedimentato di donne che hanno fatto la storia di questa terra. Percorsi complessi, conflittuali, ma anche carichi di quel desiderio di autodeterminazione, di libertà, di emancipazione per le donne. 

Io sono cresciuta qui, con tante donne che mi hanno preso per mano, lasciandomi camminare da sola. Tra i banchi di Scienze Politiche ho incontrato chi in un modo o nell'altro ha contribuito a rendermi la persona che sono. Un confronto intergenerazionale, scambio di saperi e di esperienze, di una idea di ricerca epistemologicamente femminile e femminista. 

Un Centro, che tra mille difficoltà ha continuato in questi anni ad essere cornice di ricerche e di progetti, di corsi e di momenti formativi per il territorio, portati avanti in una costante dialettica tra presente e passato, tra qui ed altrove. 

Laura Boldrini, presidente della Camera, ha scelto di devolvere i proventi del suo libro per sostenere un progetto di ricerca sul genere e di darne il coordinamento al centro di Women’s Studies. Un riconoscimento importante, alle soglie del suo ventesimo compleanno. 

Lo ha ricordato Giovanna Vingelli, direttora, durante la cerimonia di consegna della borsa di studio a Alessia Tuselli: con parole cariche di quella responsabilità che diventa cura di un percorso e di un progetto comune. 
“E’ un’attenzione credo anche alle donne calabresi- ha detto Giovanna Vingelli- Nella storia della Calabria le donne hanno ricoperto un ruolo tutt’altro che marginale e secondario. Nel periodo della grande emigrazione verso i paesi d’oltre oceano o negli anni che dalla fine della guerra arrivano alle occupazioni delle terre; o ancora nelle lotte portate avanti dalle raccoglitrici di olive negli anni Cinquanta e Sessanta e nelle lotte più recenti dei movimenti. donne forti in un contesto familiare/domestico, spesso vulnerabili nella contrattazione di spazi di libertà personali. Donne protagoniste di processi di mutamento socio-culturali che si incrociano con universi simbolici resistenti al cambiamento, con i vincoli materiali di un contesto difficile, con il peso opprimente del potere della ‘ndrangheta”.
La presidente Boldrini ha parlato del linguaggio, quel tanto decantato linguaggio di genere. E così che io sono dottora di ricerca, Giovanna è direttora, Laura Boldrini è la presidente. E poi c’è la ministra, la sindaca, l’ingegnera. E’ solo grammatica, ma come dice un caro amico, “è la pratica che rompe la grammatica”! 
Perché come ha ricordato Alessia, se non continuiamo a nominarci, non esistiamo. Perché se le questioni di genere sono ancora un problema, è anche per questo, e il linguaggio è il primo campo in cui il potere gioca. Ancor di più in Calabria, ancor di più laddove in una aula di tribunale un ominicchio di ‘ndrangheta si permette tra il silenzio di tutti, di dire ad una magistrata “stai zitta” (e di questo ne scriverò a breve).

Io sono fiera di essere parte di questo spazio e di questo tempo che è il Centro di Women’s Studies Milly Villa, e lo sono anche delle parole della direttora Giovanna Vingelli, che ringrazio per aver trovato il modo giusto per raccontare la nostra storia, che è fatta anche di ricerca precaria – pericolosissima- su questi temi, accompagnata da una faticosa lotta per il riconoscimento, troppo spesso negato. 

“In università come altrove non possiamo sottacere vincoli e difficoltà. Tutte e tutti siamo consapevoli delle criticità che attraversa il sistema dell’istruzione pubblica: il Centro vive grazie alle meravigliose donne che lo hanno fondato, che lo hanno accompagnato in questi anni, e a una nuova generazione di ricercatrici che si occupano di migrazioni, di violenza di genere, di ndrangheta, di nuove maschilità. E che vivono una condizione di precariato dolorosa, spesso accompagnato da un parziale riconoscimento del valore dei loro studi, proprio perché studi di genere, considerati, soprattutto in questi ultimi anni, residuali, superflui, persino pericolosi.
Voglio rivendicare questa pericolosità, che è la pericolosità della sfida al potere, alle disuguaglianze e alle discriminazioni.
Ringrazio nuovamente, in maniera non formale, la Presidente della Camera, on.le Laura Boldrini, per l’attenzione che ci ha mostrato; e la ringrazio per l’attenzione con cui guarda ai territori.
Alcuni potrebbero definirli territori marginali: accetto questa definizione nei termini dell’attivista afroamericana bell hooks, secondo la quale il margine non è solo luogo di privazione, imposta da strutture oppressive, ma anche spazio di resistenza, di radicale possibilità”.

venerdì 7 ottobre 2016

I contenuti sovversivi della memoria.







“Ricordare il passato può dare origine ad intuizioni pericolose, e la società stabilita sembra temere i contenuti sovversivi della memoria. Ricordare è un modo di dissociarsi dai fatti come sono… e negli eventi personali dell’individuo si affermano le paure e le aspirazioni dell’umanità- l’universale ed il particolare” (Marcuse 1967).

Una comunità di memoria. 
Negli ultimi anni ho conosciuto le storie di tante donne e uomini che in Calabria (e non solo) hanno vissuto vite ordinarie, normali, quotidiane. Storie di persone uccise dalla mano ‘ndranghetista, accomunate dalla violenza di un potere che decide di non far vivere più. Storie di morte, ma storie di vita. La “comunità di memoria” di cui ho fatto parte e di cui mi sento parte, è stato lo spazio della condivisione di piccole storie, della creazione di legami forti radicati nel terreno comune della dignità. I familiari delle vittime innocenti della ’ndrangheta rappresentano quel monito vivente per una terra che fa fatica a ricordare. Perché ricordare è un atto di grande responsabilità: perché quelle morti sono ferite aperte per chi continua a chiedere verità e giustizia; perché sappiamo che potevano essere evitate; perché dovremmo impegnarci affinché non possa più accadere. E non solo. Ricordare è fare i conti con un potere che nega agli individui il riconoscimento in quanto donne e uomini liberi. Ricordare è un percorso formativo, fatto di ascolto, di narrazione, di letture, di carte e di emozioni. È una fatica, è una cura: nella scelta delle parole per dire, dei silenzi da cogliere, nei modi e nello stile del rispetto di un dolore che è intimo, personale, innominabile. Nel rispetto e nella cura, rientra quel grande sentimento di riconoscenza e gratitudine che a loro dobbiamo. Perché prendendoci per mano, nel rispetto dei tempi e dei modi di ognuna e ognuno, ci stanno accompagnando nell'attraversare quel ponte dal privato al pubblico, per farne memoria collettiva. I familiari delle vittime innocenti non devono essere semplicemente chiamati "vittime": non lo sono. Lo stanno ripetendo in tutti i modi: sono cittadine e cittadini che vogliono vivere il loro ricordo traducendolo in quotidiane e piccole attività cariche di etica, di responsabilità, di dignità e di libertà.  Il cui contenuto sovversivo non dobbiamo temere, anzi.

Demetrio Quattrone.
La storia della Calabria può essere contro-narrata a partire dalla storia di chi è stato ucciso. Una contro-narrazione rispetto al grande narrazione che il potere stesso vuole mantenere.
Tra queste storie, quella di Demetrio Quattrone. Dopo 25 anni dal suo omicidio, ieri per la prima volta c’è stato chi ne ha voluto parlare in una dimensione mediatica nuova. Ci sono voluti due bravi giornalisti, Pietro Comito e Agostino Pantano, per raccogliere questa storia, accoglierne il ricordo e coglierne il senso profondo di un impegno e di un legame con la storia di questa terra.
Io penso che per conoscere Demetrio Quattrone bisogna rileggere le sue parole, chiare e terribilmente attuali. Sono gli anni ’90 e Mimmo (come tutti lo chiamavano) era un ispettore del lavoro, ingegnere di 42 anni, che non smette di denunciare quanto accadeva a Reggio Calabria. Così scrive:

“Il partito dei palazzinari a Reggio governa la città. Come si diceva, l’affare assicurato periodicamente e senza programmazione dallo Stato porta flussi di denaro che non vengono reinvestiti nell’azienda che avrebbe dovuto produrre il bene oggetto dell’appalto. Detti flussi di denaro vengono trasformati in “cemento” da vendere poi alla classe impiegatizia, molto numerosa, reggina. Ma indirizzare il mercato verso queste scelte (casa edificata dal palazzinaro) significa fare in modo che l’offerta sia la più piccola possibile. Da qui il partito dei palazzinari ha una scelta quasi obbligata: bloccare con sistemi di potere l’attività degli uffici comunali preposti alla progettazione dell’uso del territorio. Si arriva a bloccare le progettazioni di cittadini fuori dal giro dei palazzinari per anni, facendo “passare” le progettazioni del partito dei palazzinari stessi. Parole che da sole bastano per descrivere quel meccanismo di trasformazione del denaro in cemento attraverso un sistema di relazioni conniventi e conviventi”.

Parole chiare, che spiegano con semplicità meccanismi complessi di riciclaggio, corruzione, collusione, reati ambientali. Per queste parole e per tutte quelle che ha avuto il coraggio, l’etica e la serietà professionale di scrivere, Demetrio viene ucciso il 28 settembre 1991, insieme al suo amico Nicola Soverino. Negli stessi anni, la mafia del cemento uccide il vigile Macheda (impegnato nella lotta contro l’abusivismo edilizio) e l’imprenditore edile Polifroni (dopo anni di resistenza alle richieste estorsive e di denuncia).

Memoria, amicizia, libertà 

Conosco Rosa Quattrone da anni. Da lei e con lei ho imparato che la ndrangheta si combatte anche a partire dall’estetica, dalla bellezza, dalle scelte urbane e urbanistiche, dai colori. Ho imparato che l’etica della professione fa parte integrante della memoria, che essere architetti in Calabria significa costruire bellezza, contro il brutto della ’ndrangheta. Con lei ho imparato la fatica del riconoscimento, il peso di un cognome visto da chi sa che è una che darà fastidio, per cui niente progetti su cui lavorare. Con lei ho condiviso lacrime di rabbia e di delusione, ma anche interminabili giornate di allegria, festa, gioia. Fino alla condivisione delle gioie più grandi, l’ultima la nascita della piccola Alice. Con Rosa, Nino, Maria Giovanna, e ora con Christian e Alice ho imparato che la libertà ha il loro volto.
Ci sono tanti modi per salutarsi. Tanti modi per augurare ad una amica Buon Viaggio.
Tanti modi per ricordarle che niente è stato vano, che bisogna ripartire dalle ferite per ricominciare. Per augurare una nuova buona vita. Per dirci che ci vogliamo bene. Ieri Pietro e Agostino mi hanno permesso di regalare a me stessa e alla mia terra la storia di Demetrio, e di Rosa. A Rosa questa terra deve molto, e spero che un giorno se ne possa rendere conto.

 Buon viaggio amica mia, si parte, ma per tornare. Ogni luogo sarà quello del ricordo, della memoria che non è slogan, ma è vita. E’ libertà. Così come diceva il tuo papà:  

“L’uomo non è né stupido né intelligente. O è libero o non lo è. All’ infuori della libertà non si ha niente”



Per approfondire:

domenica 2 ottobre 2016

Il tre ottobre a Lampedusa. Memoria e Mediterraneo.


Le parole dei sopravvissuti.
I confini sono da tempo la mia passione. Ho iniziato a studiarli, a usarli come categoria, a leggere tutto ciò che ne facesse anche minimamente riferimento, a viverli. Da Elogio del margine di bell hooks, a La terrazza proibita di Fatima Mernissi, ai saggi sociologici e filosofici. E studiando le migrazioni, non si può non attraversarli questi confini, farne esperienza, passarci attraverso. Attraversare un confine significa renderlo frontiera, vivere quello spazio tra una linea e l’altra.
L’ho imparato attraversando un muro, qualche anno fa, quel muro in Palestina che ti costringe a pensare alle dinamiche di potere e di controllo, a quell'atto sociale e politico che è la creazione stessa dei confini. Scegliere il confine come categoria induce ad un’altra conseguente scelta, quella di vivere il confine, di sceglierlo come luogo – spazio e tempo- di ricerca. Per questo mi sono trovata prima nel Pas de Calais, poi in Sicilia e poi ancora a Pantelleria e poi ancora a Lampedusa. Una scelta precisa, quella di studiare le migrazioni a partire dai confini, dai quei luoghi di passaggio -dall'estremo nord all'estremo sud- per coglierne dinamiche, aspetti e soprattutto per “mettere a lavoro” quelle categorie così tanto certe, ancore sicure.
Chi in un modo o nell'altro è stato a Lampedusa, ha certamente cambiato il punto di vista sulle migrazioni e sul Mediterraneo. Stare a Lampedusa significa decostruire quel processo di costruzione dell’immaginario migratorio fatto di stereotipi e pregiudizi, ma anche di chiavi interpretative ormai obsolete, che poco servono a leggere la realtà. In questi giorni sentiremo parlare di Lampedusa, delle “stragi di Lampedusa”, del tre ottobre.
La riflessione che da un po’ di tempo mi porto dentro ha a che fare con la dinamica per cui si continua a delegare a Lampedusa quel ruolo di frontiera unica, come se si potessero concentrare tutte le frontiere marittime in un unico punto. Quell'unico luogo che nella sicurezza della deresponsabilizzazione, permette alla società di non trasformare la memoria di quello che è accaduto in memoria collettiva. Lampedusa viene definita “l’isola del rimosso” (Liberti 2008), luogo che permette attraverso grandi processi mediatici di essere visibile e allo stesso tempo, di rendere invisibile quello che accade quotidianamente in tutto il Mediterraneo. Visibilità e invisibilità si intersecano quindi con il tema della memoria, individuale e collettiva.
Stare a Lampedusa significa questo: comprendere quel legame sottile tra l’esperienza dei singoli e la narrazione collettiva, tra la memoria dei luoghi fisici con quella mediatica e virtuale. Non è facile parlare di Lampedusa cercando di schivare la retorica e superando la dicotomia dell’isola che si muove tra accoglienza e chiusura. Lampedusa è uno spazio, è un tempo, e uno spazio-movimento come diceva Bourdieu (1987), è uno spazio migratorio, è una frontiera: è quel luogo del lontano che diventa vicino, e del vicino che si allontana.
Per capire questo legame tra le storie individuali e quelle collettive, la scelta metodologica da fare è quella dell’ascolto, dell’incontro. Dopo un anno esatto da quel 3 ottobre decisi di stare a Lampedusa, volevo capire come l’isola avesse vissuto quell’anno così mediaticamente invasivo e volevo farlo dalla strada, dai bar, dalla spiaggia, ascoltando chi c’era. In quei giorni ho esattamente compreso cosa intendesse Cuttitta (2012) nel suo libro “lo spettacolo del confine”: la ribalta teatrale, Lampedusa che da confine diventa frontiera e poi palcoscenico.
In quei giorni erano fortemente visibili quei mondi così diversi tra loro, uno fatto di servizi televisivi e interviste in uno spazio creato ad hoc in mezzo a quello che allora era il “cimitero delle barche”, l’altro dei lampedusani, quasi infastiditi da questo clamore, e che invece avrebbero voluto raccontare un’altra storia, ostacolati però da quel pudore e rispetto verso la tragedia che loro stessi avevano vissuto.
Il silenzio dei soccorritori dice molto, racconta tanto del 3 ottobre e di tutti quei naufragi taciuti, e molto dice- o meglio ha detto visto si sta sviluppando una produzione filmica proprio su questo- la non visibilità di questa narrazione nel discorso pubblico.
E così che superando la diffidenza dovuta alla presenza in anni di centinaia di ricercatori sociali e giornalisti, nell'informalità di una conversazione viene fuori quel silenzio, tradotto in sguardi, parole, gesti. Le migliori “interviste” per me sono state così, nella quotidianità di un caffè, di una panchina, in una sala d’attesa in aeroporto.
“Nel 2011, in quei giorni, io e mia moglie lasciavamo da mangiare sul tavolo, così quando entravano lo trovavano. Erano disperati, cercavano da mangiare. Anche se entravano da ladri in casa, non rubavano niente. Cercavano da mangiare”. Lo ha detto un signore accompagnandomi gentilmente a prendere l’aereo, e credo di non aver mai avuto una descrizione migliore di quella che mediaticamente era nominata “l’emergenza a Lampedusa”. Un riconoscimento del proprio essere situati e della solidarietà che non si traduce in rabbia e divisione- pur nella stranezza di questa narrazione- ma in dinamiche quotidiane di solidarietà che di sicuro, non ci si aspetta.
Un ritardo di un aereo da Tunisi mi ha permesso di stare ore a parlare con un anziano signore, un vecchio pescatore di quelli che staresti ore ad ascoltare.  Abbiamo parlato della pesca, delle difficoltà di oggi, dei mutamenti che ci sono stati nei decenni. “Ma ci sono giorni in cui maledici questo lavoro”, mi ha detto con gli occhi pieni di lacrime “quei giorni quando insieme ai pesci tiri su altro, è una cosa terribile, è una cosa terribile”.
Basta, non è servito aggiungere altro. Non c’è stato bisogno, perché quel silenzio di quegli attimi serviti a mandare giù il magone, aveva già detto tutto. Aveva spiegato senza dirlo, di come in tutto ciò si dimentica di ritornare ai corpi, alle persone, all'umano.
L’ascolto dei soccorritori e ancora di più dei sopravvissuti, permette di ritornare a ciò che è terribilmente umano nella sua disumanizzazione. Terribilmente umano nelle storie di tante donne e di tanti uomini, nelle loro scelte, e come mi ha da poco ricordato un giovane rifugiato, dei loro sogni.
È necessario quindi riconoscere e ascoltare i sopravvissuti, provare a vivere questo tre ottobre attraverso l’ascolto perché è con la parola che si può dare significato alla relazione tra presente, passato e futuro. Si dovrebbe cogliere l’occasione del tre ottobre per fa sì che questi temi possano entrare anche nel discorso pubblico calabrese, terra di approdo per tante persone, caratteristica poco messa a tema. La Calabria è terra di accoglienza, terra di modelli nuovi e nuove pratiche, di sistemi forse legali ma sicuramente poco trasparenti e giusti, che in ogni caso fatica a riconoscersi come luogo mediterraneo e frontiera marittima.
Da qui, dalla Calabria, anche essa luogo di confine, è quindi possibile comprendere come quella del tre ottobre e del Mediterraneo in generale è una memoria senza dimora, perché è il risultato di un processo di dislocazione, che è annullamento delle responsabilità. Lampedusa è diventata questo, il luogo della dislocazione, il luogo del rimosso ma che in questa dinamica di contraddizioni e negazioni diventa il luogo che permette la rimozione stessa del lutto del Mediterraneo.
Tahar Lamri durante un incontro pubblico proprio a Lampedusa in occasione del primo anniversario del tre ottobre ha detto “la coscienza di trecento e più persone morte è elaborazione del lutto, permette di sentire che da qualche parte sei cattivo, e devi poi farci i conti”, e per questo che i tanti eventi commemorativi di questi giorni e gli artefatti non diventano costruzione politica, perché dovremmo farci i conti.
Utili per comprendere quello che stiamo vivendo sono le parole di Marta Vignola in La memoria desaparesida che parla di spazi e tempi della memoria, delle contraddizioni del “valore che si attribuisce ad una data (che) tende a mutare con il trascorrere del tempo a seconda che si cristallizzino e si istituzionalizzino differenti visioni”. 
Le “date ed anniversari sono dunque, congiunture di attivazione delle memorie dei differenti attori sociali nell'ambito della sfera pubblica, si riorganizzano gli eventi, si capovolgono spesso gli schemi esistenti, appaiono voci nuove e riemergono voci antiche che domandano, raccontano, creano spazi intersoggettivi, condividono ciò che hanno vissuto, ascoltato, omesso” (Vignola 2012 p. 33).
Il tre ottobre è la Giornata nazionale in memoria delle vittime dell'immigrazione, per ricordare chi "ha perso la vita nel tentativo di emigrare verso il nostro paese per sfuggire alle guerre, alle persecuzioni e alla miseria" (art.1- legge 21 marzo 2016, n. 45).
Ma il tre ottobre può essere l’occasione per ascoltare quei silenzi che non troveranno spazio nel clamore dei media di questi giorni, per far riemergere quelle voci, nuove e antiche, che rappresentano il punto di partenza per rielaborare e trovare modi nuovi per parlare di migrazione e di Mediterraneo. Deve diventare l’occasione per quei territori come la Calabria, che non riescono a riconoscersi come soggetti mediterranei, come attori politici che possono fare la differenza nella narrazione, nell'analisi e nella pratica politica. Senza dislocamenti e deresponsabilizzazioni.
Perché non è colpa della migrazione, ma delle mancanze politiche europee e mondiali, della gestione criminale del traffico di esseri umani e di tanto altro. Di sicuro non è colpa di chi desidera e di chi sogna, e di sicuro non è colpa del mare.

“Con questo vento non c’è possibilità” disse il Vecchio. E mi portò dove la strada tra la spiaggia e le case moriva.
C’era un’altura, piccola, di terra di risulta. 
Mi tenne lì, mi poggiò le mani sulle spalle; 
voleva vedessi e capissi. 
“Questa cosa qui non l’ha fatta il mare” disse. 
Quel che c’era da capire lo capii.

(Pazzano S., Beltempo, SabbiaRossa 2014)




Per approfondire:  Il cimitero delle barche


sabato 1 ottobre 2016

Si inizia!




E alla fine mi sono decisa. Un blog per scrivere, raccontare, approfondire. Uno spazio in cui raccogliere appunti di ricerca, idee, pensieri e riflessioni. Da ricercatrice sociale, da donna del Sud. Con il mio bagaglio di esperienze, di teoria sociale, di metodologia, di vita quotidiana.
"Messaggi nella bottiglia", da una poco conosciuta frase di Theodor Adorno, per riprendere non solo una metafora, ma anche il suo senso teorico, che si traduce nella mia volontà di ricercatrice di sondare approcci nuovi, che si scontrerà senza dubbio, con le mie convinzioni e sicurezze.
Messaggi nella bottiglia saranno tutte le parole che qui verranno scritte, le voci non ascoltate che incontrerò, gli approfondimenti che spero possano contribuire a leggere la realtà. 
Saranno storie di donne, di uomini, di Mediterraneo, di migrazioni. Di memoria, di 'ndrangheta, di movimento anti-'ndrangheta. Di precarietà, di lavoro, di dignità e libertà.  
Si inizia. I messaggi nella bottiglia partono così, senza la certezza di chi e come lo potrà raccogliere, ma affidati  al mare. 



da www.articolo21.org

La sentenza. Il 14 settembre presso il tribunale ordinario di Cosenza in composizione monocratica, è stata pronunciato il dispositivo di sentenza in merito all’imputato editore Pietro Citrigno dichiarato colpevole del reato di violenza privata contro il giornalista Alessandro Bozzo. Un processo che sarebbe dovuto iniziare già negli ultimi mesi del 2014, in seguito alla consegna da parte della famiglia Bozzo dei diari di Alessandro. Pagine che sono diventate prove documentarie durante il processo, corroborate dalle mail inviate da Alessandro e dalle testimonianze dei colleghi che, udienza dopo udienza, hanno disegnato il quadro della situazione nella redazione di Calabria Ora.
Alessandro Bozzo, giornalista. Ma non solo. Dalle pagine dei diari e dalle parole dei testimoni, emergono con chiarezza i tratti distintivi del giornalista, nella consapevolezza che di lui si debba raccontare la sua vita e la delusione per il mancato riconoscimento di un ruolo e di una competenza professionale, che pure aveva costruito con tanta fatica. Alessandro Bozzo decide di togliersi la vita lasciando increduli e sgomenti la famiglia, i colleghi e gli amici il 15 marzo 2013. La PM della Procura di Cosenza, Maria Francesca Cerchiara nella sua requisitoria riporta quanto emerso dai colleghi giornalisti «di Alessandro – dice – non andavano bene due cose. La prima il suo carattere indipendente, e all’editore non piacevano le persone che ragionavano con la propria testa, ad Alessandro nessuno poteva dire che doveva fare. Non si adeguava. E poi aveva il contratto con l’articolo 1, non andava bene, non poteva essere licenziato. E almeno una volta a settimana ci veniva chiesto di farlo, di mandarlo a casa». Continua «Alessandro non si è piegato, non si poteva piegare. Alessandro amava la vita. Era uno che ragionava con la propria testa. Voleva essere libero, la libertà che ciascuno di noi vorrebbe esercitare». Non è facile sentire parlare in una requisitoria di libertà, di autodeterminazione, eppure è accaduto. Si è parlato della libertà di esercitare la propria professione, di seguire le proprie passioni, di poter scrivere liberamente cercando la verità. Alessandro Bozzo, che per le sue inchieste spesso aveva attirato le attenzioni intimidatorie di politici locali o esponenti di organizzazioni criminali, non si è mai autodefinito come un “giornalista antimafia”, ma solo un giornalista in cerca di verità. Refrattario alle etichette, voleva solo che venisse riconosciuta la sua esperienza e la sua capacità. Per questo non ha mai ceduto, ma come raccontano familiari e colleghi, trovava sempre il modo di lanciare un segnale, una parola, una didascalia. Con il suo stile pungente non ha fatto sconti a nessuno: ha chiesto conto di una targa promessa e ancora non messa dopo un anno dalle passerelle ufficiali in ricordo di una vittima innocente della ’ndrangheta; ha urlato contro chi ha pubblicato le foto di uccellini uccisi dai bracconieri; ha denunciato abusi e appalti truccati. E ha lasciato un grande esempio. Lo ricorda così Alfredo Sprovieri in un post su un social network di qualche giorno fa, che richiama fatti attuali: «Ci portarono in redazione un video scandalo che stava circolando nei telefonini anche se i social non c’erano ancora; lo vedemmo tutti insieme, poi ognuno tornò al proprio posto. Non avremmo mai dato quella notizia e quando Alessandro con una battuta fulminante paragonò la ragazza ad un uccellino, potemmo ricordarci anche il perché: giornalismo significa prendersela con il potente». Questo era il giornalismo per Bozzo: lo ricorda Marianna, sua sorella «è nato giornalista. Era innamorato del suo lavoro. Della verità». Oggi ha un suono ben diverso quello che Alessandro Bozzo scrisse nel 2012 su una vicenda che ha ancora oggi intrecci tra politica e malaffare sulla edilizia sociale: «In un mondo normale se uno fa il proprio dovere nell’interesse dell’azienda per cui lavora e della comunità, fa carriera. E viene trattato con riguardo, rispettato e stimato. Perché ha un’etica professionale e rispetto della legge o semplicemente perché è onesto e non gli piacciono furbetti e prepotenti. Ma Cosenza non è una città normale. Qui se uno fa il proprio dovere lo assegnano ad altro incarico e se si ribella gli incendiano pure la macchina. Per far carriera a Cosenza bisogna essere vigliacchi senza onore o imbroglioni dall’avidità insaziabile, sempre pronti a inginocchiarsi davanti ai prepotenti». Di Alessandro giornalista calabrese si deve avere il dovere di parlare, di raccontare il suo stile e il suo modo di guardare in faccia la realtà calabrese.
Alessandro Bozzo, giornalista precario. «U guagliune s’à da adegua, altro che libertà di autodeterminazione» sono le parole riportate da una testimonianza durante la requisitoria. Alessandro sapeva che quel cambio di contratto era un segnale forte, la perdita di ogni certezza lavorativa, sia in termini di sicurezza che di libertà. La minaccia latente era dietro l’angolo, lo dicono in molti durante il processo. «funzionava così, proposta di trasferimento, cambio di contratto. Poi il licenziamento o sei dentro e accetti o sei fuori». «U mannamu a Catanzaro, magari là non darà fastidio, magari sta più sereno» riportano i testimoni in aula. «Era come avere una scimmia sulla spalla e un cinghiale sullo stomaco, per far capire l’ingerenza, la pressione. Altro che libertà di autodeterminazione». Una situazione insostenibile da più punti di vista. È per questo che la firma di quel contratto da tempo indeterminato a tempo determinato è stato un punto di non ritorno nella vita di Alessandro che quel giorno commentò: «ho firmato una estorsione». Da allora è uno stillicidio, e le pagine del diario non lasciano spazio alle interpretazioni. Lo scrive, con il suo stile, mese dopo mese. «Oggi è un mese da precario», «oggi sono due mesi da precario» e poi ancora «sarò disoccupato. Sono un morto che cammina, giornalisticamente parlando. Non so come riesco a andare avanti, sono arrivato alla conclusione che non merito questo trattamento». «Lo odio (rivolgendosi all’editore) perché pensa che precarizzandoci e riducendo gli stipendi otterrà quello che vuole. Rendere i giornalisti licenziabili facilmente». Il mutuo da pagare, la famiglia di mandare avanti, la fatica di una quotidianità precaria che obbliga a mettere da parte se stessi. Alessandro lo scriva anche il 1 maggio: «1 maggio festa del lavoro. Non so cosa ci sia da festeggiare oggi. Dovrebbero chiamarla festa dei precari, e dei disoccupati. E’ il primo anniversario del precariato», ricorda che da un mese è precario contro la sua volontà. «Il termine precario – continua la Pm –  non piaceva ad Alessandro, non lo accettava. Alessandro aveva la schiena dritta. Era stato relegato in uno scantinato. Insieme ad altri che diventano bravissimi giornalisti. Sono stati umiliati, ce lo dicono i colleghi». Tutto questo non può non imporre una riflessione sul grande tema del precariato, del giornalismo e dell’editoria. E’ per questo che questa sentenza deve anche essere considerata nel panorama generale del lavoro e della dignità del lavoro, della sopravvivenza. «E’ una piccola storia di verità e giustizia, una storia di sud – come ha recentemente affermato la ricercatrice sociale Ludovica Ioppolo durante un intervento pubblico – una storia di libertà di stampa negata, di dignità dei lavoratori violentata». Una sentenza – della quale si aspetta di leggere le motivazioni tra novanta giorni – che però già da ora lancia un segnale forte all’editoria calabrese nello specifico, ma al mondo del giornalismo e del precariato. Un segnale per quel precariato che è potere nelle vite di molti, di chi è costretto a scegliere tra la rinuncia delle proprie libertà e diritti, della dignità e la semplice sopravvivenza quotidiana. Ce lo stanno raccontando i giornalisti, donne e uomini professionisti che sono rimasti, che sono andati via, che non ne hanno più parlato, che sono stati presenti nelle udienze o che camminano intorno al tribunale senza trovare la forza di entrare. Ognuno e ognuna con un carico di sofferenza, di tormenti che nessuno mai potrà giudicare. Perché è un vissuto così intimo e profondo che ogni parola sarebbe fuori posto. Rimane sì, un segnale perché questo potere, può essere scalfito, messo in discussione, può essere nominato e quindi lottato.
Il processo e l’accompagnamento di Santo della VolpeLibera. Associazioni nomi e numeri contro le mafie nella sua organizzazione territoriale si è interessata della vicenda,  come si legge in una nota del 2014 pubblicata da Libera Cosenza: «Nella situazione attuale, nell’impossibilità di costituirci parte civile, Libera non smetterà di denunciare gli attentati alla libertà che vengono da testate giornalistiche asservite al potere, inchinate alle logiche di bieco mercato legate alle inserzioni pubblicitarie, piuttosto che impegnate a costruire spazi di democrazia e di informazione. La morte di Alessandro Bozzo ci ha messo davanti a una dura realtà costringendoci a pensare a quanto sia difficile nella nostra regione praticare la libertà di stampa e di informazione; quanto sia difficile perseguire un progetto di lavoro sano e degno e, al contempo, sognando una terra libera». Ma dietro questo impegno è oggi un dovere ricordare la cura e l’attenzione che di questa storia ha avuto Santo Della Volpe, nella sua qualità di direttore di Libera Informazione. Prima che la malattia lo portasse via, Santo Della Volpe non ha mai smesso di esserci, di denunciare pubblicamente le mancanze di chi era addetto al controllo, di scrivere e parlare di Alessandro e della situazione calabrese. Aveva anche proposto di intitolare una scuola di giornalismo in Calabria ad Alessandro Bozzo. Ma nessuno ha raccolto quel testimone. Santo della Volpe lo ha ricordato fino alla fine: «Libera Informazione è nata proprio per ricordare che l’informazione o è libera oppure non è informazione. Punto. Noi ci battiamo per questo. Contro tutti i condizionamenti, con battaglie comuni insieme al sindacato contro la precarietà e contro ogni mezzo per colpire l’indipendenza dei giornalisti, compresi i derubricamenti contrattuali “estorsivi”». Di sicuro lui sarebbe stato presente in Tribunale il giorno della sentenza, dove troppe assenze, invece hanno pesato.
Una storia tutta ancora da scrivere. Una lotta comune, che oggi ha assunto forme diverse e nuove. E’ un primo passo. La storia di un mondo precario quotidiano, il cui potere si traduce nella vita di donne e uomini. La storia di percorsi che vanno avanti, di memoria e di impegno contro i poteri e le sopraffazioni. Aspettando le motivazioni della sentenza, intanto la Procura di Cosenza non ha perso tempo dichiarando che «pur prendendo atto che con la sentenza emessa è stata riconosciuta validità all’impianto accusatorio la procura comunica che avanzerà appello alla sentenza ritenendo assolutamente inadeguata la pena irrogata la pena rispetto alla gravità dei fatti contestati e che proseguiranno le indagini per ulteriori fatti reato emersi nel corso del dibattimento». Facendo così seguito alle richieste del pubblico ministero della Procura di Cosenza, Maria Francesca Cerchiara, che ha chiesto la condanna a quattro anni di carcere per l’imprenditore Citrigno e al termine della sua requisitoria, ha chiesto anche la trasmissione degli atti alla Procura perché durante il processo sono emersi «nuovi elementi e ipotesi di reato di estorsione e violenza privata» esercitate da Citrigno in relazione a «condotte diverse e autonome da questo procedimento e perpetrate nei confronti di Bozzo e di altri quattro giornalisti». Una storia quindi, tutta ancora da scrivere.