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Le parole dei sopravvissuti.
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I confini sono da tempo la mia
passione. Ho iniziato a studiarli, a usarli come categoria, a leggere tutto ciò
che ne facesse anche minimamente riferimento, a viverli. Da Elogio del margine di bell hooks, a La terrazza proibita di Fatima Mernissi,
ai saggi sociologici e filosofici. E studiando le migrazioni, non si può non
attraversarli questi confini, farne esperienza, passarci attraverso.
Attraversare un confine significa renderlo frontiera, vivere quello spazio tra
una linea e l’altra.
L’ho imparato attraversando un muro, qualche anno fa, quel
muro in Palestina che ti costringe a pensare alle dinamiche di potere e di
controllo, a quell'atto sociale e politico che è la creazione stessa dei
confini. Scegliere il confine come categoria induce ad un’altra conseguente
scelta, quella di vivere il confine, di sceglierlo come luogo – spazio e tempo-
di ricerca. Per questo mi sono trovata prima nel Pas de Calais, poi in Sicilia
e poi ancora a Pantelleria e poi ancora a Lampedusa. Una scelta precisa, quella
di studiare le migrazioni a partire dai confini, dai quei luoghi di passaggio -dall'estremo nord all'estremo sud- per coglierne dinamiche, aspetti e
soprattutto per “mettere a lavoro” quelle categorie così tanto certe, ancore
sicure.
Chi in un modo o nell'altro è
stato a Lampedusa, ha certamente cambiato il punto di vista sulle migrazioni e
sul Mediterraneo. Stare a Lampedusa significa decostruire quel processo di
costruzione dell’immaginario migratorio fatto di stereotipi e pregiudizi, ma
anche di chiavi interpretative ormai obsolete, che poco servono a leggere la
realtà. In questi giorni sentiremo parlare di Lampedusa, delle “stragi di
Lampedusa”, del tre ottobre.
La riflessione che da un po’ di tempo mi porto
dentro ha a che fare con la dinamica per cui si continua a delegare a Lampedusa
quel ruolo di frontiera unica, come se si potessero concentrare tutte le
frontiere marittime in un unico punto. Quell'unico luogo che nella sicurezza
della deresponsabilizzazione, permette alla società di non trasformare la
memoria di quello che è accaduto in memoria collettiva. Lampedusa viene
definita “l’isola del rimosso” (Liberti 2008), luogo che permette attraverso
grandi processi mediatici di essere visibile e allo stesso tempo, di rendere
invisibile quello che accade quotidianamente in tutto il Mediterraneo.
Visibilità e invisibilità si intersecano quindi con il tema della memoria,
individuale e collettiva.
Stare a Lampedusa significa
questo: comprendere quel legame sottile tra l’esperienza dei singoli e la narrazione
collettiva, tra la memoria dei luoghi fisici con quella mediatica e virtuale.
Non è facile parlare di Lampedusa cercando di schivare la retorica e superando
la dicotomia dell’isola che si muove tra accoglienza e chiusura. Lampedusa è
uno spazio, è un tempo, e uno spazio-movimento come diceva Bourdieu (1987), è
uno spazio migratorio, è una frontiera: è quel luogo del lontano che diventa
vicino, e del vicino che si allontana.
Per capire questo legame tra le storie
individuali e quelle collettive, la scelta metodologica da fare è quella
dell’ascolto, dell’incontro. Dopo un anno esatto da quel 3 ottobre decisi di
stare a Lampedusa, volevo capire come l’isola avesse vissuto quell’anno così
mediaticamente invasivo e volevo farlo dalla strada, dai bar, dalla spiaggia,
ascoltando chi c’era. In quei giorni ho esattamente compreso cosa intendesse
Cuttitta (2012) nel suo libro “lo spettacolo del confine”: la ribalta teatrale,
Lampedusa che da confine diventa frontiera e poi palcoscenico.
In quei giorni erano fortemente
visibili quei mondi così diversi tra loro, uno fatto di servizi televisivi e
interviste in uno spazio creato ad hoc in mezzo a quello che allora era il
“cimitero delle barche”, l’altro dei lampedusani, quasi infastiditi da questo
clamore, e che invece avrebbero voluto raccontare un’altra storia, ostacolati
però da quel pudore e rispetto verso la tragedia che loro stessi avevano
vissuto.
Il silenzio dei soccorritori dice molto, racconta tanto del 3 ottobre
e di tutti quei naufragi taciuti, e molto dice- o meglio ha detto visto si sta
sviluppando una produzione filmica proprio su questo- la non visibilità di
questa narrazione nel discorso pubblico.
E così che superando la diffidenza
dovuta alla presenza in anni di centinaia di ricercatori sociali e giornalisti, nell'informalità di una conversazione viene fuori quel silenzio, tradotto in
sguardi, parole, gesti. Le migliori “interviste” per me sono state così, nella
quotidianità di un caffè, di una panchina, in una sala d’attesa in aeroporto.
“Nel 2011, in quei giorni, io e
mia moglie lasciavamo da mangiare sul tavolo, così quando entravano lo
trovavano. Erano disperati, cercavano da mangiare. Anche se entravano da ladri
in casa, non rubavano niente. Cercavano da mangiare”. Lo ha detto un signore
accompagnandomi gentilmente a prendere l’aereo, e credo di non aver mai avuto
una descrizione migliore di quella che mediaticamente era nominata “l’emergenza
a Lampedusa”. Un riconoscimento del proprio essere situati e della solidarietà
che non si traduce in rabbia e divisione- pur nella stranezza di questa
narrazione- ma in dinamiche quotidiane di solidarietà che di sicuro, non ci si
aspetta.
Un ritardo di un aereo da Tunisi mi ha permesso di stare ore a parlare
con un anziano signore, un vecchio pescatore di quelli che staresti ore ad
ascoltare. Abbiamo parlato della pesca,
delle difficoltà di oggi, dei mutamenti che ci sono stati nei decenni. “Ma ci
sono giorni in cui maledici questo lavoro”, mi ha detto con gli occhi pieni di
lacrime “quei giorni quando insieme ai pesci tiri su altro, è una cosa
terribile, è una cosa terribile”.
Basta, non è servito aggiungere altro. Non
c’è stato bisogno, perché quel silenzio di quegli attimi serviti a mandare giù
il magone, aveva già detto tutto. Aveva spiegato senza dirlo, di come in tutto
ciò si dimentica di ritornare ai corpi, alle persone, all'umano.
L’ascolto dei
soccorritori e ancora di più dei sopravvissuti, permette di ritornare a ciò che
è terribilmente umano nella sua disumanizzazione. Terribilmente umano nelle
storie di tante donne e di tanti uomini, nelle loro scelte, e come mi ha da
poco ricordato un giovane rifugiato, dei loro sogni.
È necessario quindi riconoscere e
ascoltare i sopravvissuti, provare a vivere questo tre ottobre attraverso
l’ascolto perché è con la parola che si può dare significato alla relazione tra
presente, passato e futuro. Si dovrebbe cogliere l’occasione del tre ottobre
per fa sì che questi temi possano entrare anche nel discorso pubblico
calabrese, terra di approdo per tante persone, caratteristica poco messa a
tema. La Calabria è terra di accoglienza, terra di modelli nuovi e nuove
pratiche, di sistemi forse legali ma sicuramente poco trasparenti e giusti, che
in ogni caso fatica a riconoscersi come luogo mediterraneo e frontiera marittima.
Da qui, dalla Calabria, anche essa luogo di confine, è quindi possibile comprendere come quella
del tre ottobre e del Mediterraneo in generale è una memoria senza dimora, perché
è il risultato di un processo di dislocazione, che è annullamento delle
responsabilità. Lampedusa è diventata questo, il luogo della dislocazione, il
luogo del rimosso ma che in questa dinamica di contraddizioni e negazioni
diventa il luogo che permette la rimozione stessa del lutto del Mediterraneo.
Tahar Lamri durante un incontro pubblico proprio a Lampedusa in occasione del
primo anniversario del tre ottobre ha detto “la coscienza di trecento e più
persone morte è elaborazione del lutto, permette di sentire che da qualche
parte sei cattivo, e devi poi farci i conti”, e per questo che i tanti eventi
commemorativi di questi giorni e gli artefatti non diventano costruzione
politica, perché dovremmo farci i conti.
Utili per comprendere quello che
stiamo vivendo sono le parole di Marta Vignola in La memoria desaparesida che parla di spazi e tempi della memoria,
delle contraddizioni del “valore che si attribuisce ad una data (che) tende a
mutare con il trascorrere del tempo a seconda che si cristallizzino e si
istituzionalizzino differenti visioni”.
Le “date ed anniversari sono dunque, congiunture di attivazione delle
memorie dei differenti attori sociali nell'ambito della sfera pubblica, si
riorganizzano gli eventi, si capovolgono spesso gli schemi esistenti, appaiono
voci nuove e riemergono voci antiche che domandano, raccontano, creano spazi
intersoggettivi, condividono ciò che hanno vissuto, ascoltato, omesso” (Vignola
2012 p. 33).
Il tre ottobre è la Giornata
nazionale in memoria delle vittime dell'immigrazione, per ricordare chi
"ha perso la vita nel tentativo di emigrare verso il nostro paese per
sfuggire alle guerre, alle persecuzioni e alla miseria" (art.1- legge 21
marzo 2016, n. 45).
Ma il tre ottobre può essere l’occasione per ascoltare quei
silenzi che non troveranno spazio nel clamore dei media di questi giorni, per
far riemergere quelle voci, nuove e antiche, che rappresentano il punto di
partenza per rielaborare e trovare modi nuovi per parlare di migrazione e di
Mediterraneo. Deve diventare l’occasione per quei territori come la Calabria,
che non riescono a riconoscersi come soggetti mediterranei, come attori
politici che possono fare la differenza nella narrazione, nell'analisi e nella
pratica politica. Senza dislocamenti e deresponsabilizzazioni.
Perché non è
colpa della migrazione, ma delle mancanze politiche europee e mondiali, della
gestione criminale del traffico di esseri umani e di tanto altro. Di sicuro non
è colpa di chi desidera e di chi sogna, e di sicuro non è colpa del mare.
“Con questo vento non c’è
possibilità” disse il Vecchio. E mi portò dove la strada tra la spiaggia e le
case moriva.
C’era un’altura, piccola, di terra di risulta.
Mi tenne lì, mi
poggiò le mani sulle spalle;
voleva vedessi e capissi.
“Questa cosa qui non
l’ha fatta il mare” disse.
Quel che c’era da capire lo capii.
(Pazzano S., Beltempo,
SabbiaRossa 2014)