L’8 marzo 1994, 25 anni fa, viene pubblicato “Le Donne, la
mafia” di Renate Siebert.
“Voglio comprendere a partire da un punto di vista di donna e
voglio dare voce alle donne che per un motivo o per un altro si sono trovate
invischiate in faccende di mafia. Cerco di unire l’ascolto dell’esperienza
soggettiva della mafia con un’analisi teorica” (Siebert, 1994 p. 17). Con
queste parole, si diede inizio a un nuovo percorso di studio, riflessione,
impegno nato all’indomani delle stragi di mafia degli anni novanta.
Un testo, che è insieme esperienza soggettiva, analisi
profonda della realtà mafiosa, dialogo con la teoria: una ricerca che racchiude
la forza rivoluzionaria dell’utopia che non ha paura di andare in profondo, di
ripartire - come la stessa Renate Siebert scrive con Assia Djebar - dalle
ferite.
Ferite che parlano di morte, angoscia e violenza, del potere
mafioso che annulla diritti e libertà, di quella “banalità del male” che “devasta
il tessuto democratico della società”. Diritti e libertà ottenuti dalle donne
con fatica nei contesti occidentali, e negati nei contesti di signoria
territoriale delle mafie, laddove la lotta per il riconoscimento della propria
individualità diventa un atto rivoluzionario.
Attraverso l’analisi del quotidiano, Renate Siebert lavora
altresì sulle implicazioni soggettive, sulla dimensione “etica della nostra
convivenza quotidiana, con un fenomeno che volendo o no ci riguarda tutti”. E
proprio perché ci riguarda, è necessario comprendere le conseguenze che la
costruzione di un immaginario mafioso implica sulle donne, rafforzando ruoli e
aspettative, condizionando le vite nella dialettica, smascherata in questo testo, tra Eros e Thanatos. E’ infatti
in questa ricerca che, per la prima
volta, si mette a fuoco questo semplice movimento – fatto di scelte, complicità
e rotture - tra la vita e la morte, tra l’amore e la violenza, tra la vita e le
mafie.
Tutto ciò è costantemente attraversato dall’imperativo etico
del “non dimenticare”, della memoria che diventa pratica, che diventa legame: “Credo
che sia importante costruire solidarietà con le donne vittime di mafia.
Dobbiamo insieme rompere i silenzi e dare sempre più voce a loro, non lasciarle
sole, ricostruire le loro storie, costruire una memoria storica dei loro gesti,
mettere a fuoco la loro soggettività”.
A 25 anni di distanza, questo libro è il riferimento per
tutte coloro che in questi anni hanno voluto leggere le mafie rimanendo fedeli
a questo metodo, a questo stile. Un “classico” di un’attualità e di una
necessità che lascia senza parole. Perché non solo Renate Siebert ha dato vita
a una nuova prospettiva, ma ha dato dignità a una nuova attenzione verso le donne, che in
questi anni è diventata tensione costante tradotta in percorsi, scelte e
modalità di lotta che hanno attraversato lo stesso movimento antimafia. Leggere
oggi “Le donne, la mafia” ci costringe a ribadire con forza la necessità di
affrontare lo studio alle mafie ripartendo dal quotidiano, di affiancare le vite
delle donne che muovendosi tra Eros e Thanatos, scelgono di vivere.
Chi scrive non può tacere l’importanza che questo testo ha
avuto nella propria vita. Quella necessità di fare ricerca – perché sì, è una
necessità se si vuole lottare per il cambiamento senza adeguarsi alla
superficialità di analisi in cui stare sicure - e di rimanere fedeli a metodo,
stile e rigore. Parole che hanno influenzato la mia vita da ricercatrice, ma
ancor più di donna calabrese. Perché quando ci si sente parte di una storia,
quando si ha la meravigliosa possibilità di riconoscersi allieve e di avere Maestre,
quando non ci si sente sole, allora tutto - la lotta, lo studio e la ricerca -
continuano ad avere senso.
Non è questo il luogo per approfondire oltre: ci saranno luoghi
e strumenti accademici per rendere omaggio a “Le donne, la mafia” e a questi 25
anni di studio.
Questo pezzo vuole essere solo un pensiero di gratitudine
profonda verso Renate, la mia Maestra, verso questi anni di accompagnamento e
di crescita, da donna, da ricercatrice, rimanendo sempre attente alla tensione -
a noi cara - verso il “poter essere”.