La rotta...

La cosa più importante per chi non ha potere è avere almeno un sogno
Da "La terrazza proibita" di Fatima Mernissi

domenica 15 gennaio 2017

...perchè sono vivi!!


Questo blog nasce per dare spazio anche ai silenzi di questa terra. Ci sono storie che legano per sempre le vite delle persone che si riconoscono in una promessa di impegno per la giustizia, la verità, la pace. Ci sono storie come quelle di Pino, un giovane uomo innamorato della vita, come si deve essere alla sua età. Pino viene ucciso per questo, per il suo essere semplicemente un giovane innamorato. La sua storia è un altro monito nel nostro essere calabresi, che ci spinge a non pensare che la ‘ndrangheta sia altro, lontana; a pensare che il potere della ‘ndrangheta penetra nelle nostre vite, nei nostri corpi, nei nostri desideri. 
Ma con Pino, e con Matteo e i suoi genitori la Calabria ha imparato il senso profondo della dignità.
Pino è stato ucciso per “dignitudine”, e la famiglia Luzza ha reagito vivendo e testimoniando il senso più profondo della dignità.
Loro sono stati i primi in Calabria a costituirsi parte civile, a vivere in solitudine la disumanità delle aule di tribunale. Hanno poi costruito, nel silenzio e nell’azione quotidiana, quella domanda di verità e giustizia che è una domanda di dignità anche politica. Insieme a tutte e tutti i familiari delle vittime innocenti di questa terra, dimostrano ogni giorno che se la ‘ndrangheta crede di aver vinto uccidendo, sbaglia. Sbaglia di grosso perché le promesse di impegno radicate nella memoria hanno una forza dirompente, capace di andare oltre la morte, di frantumare dinamiche di potere e di rendere liberi. Sì, la memoria rende liberi.
Per tutto questo a loro, alla famiglia Luzza, e a tutti e tutte i familiari delle vittime innocenti la mia e nostra immensa gratitudine. Quel grazie pieno del senso di dignità, libertà, democrazia.

E il mio grazie a Matteo Luzza, amico fraterno, parte della mia comunità di memoria, referente per i familiari di Libera Calabria, per aver donato questa lettera, queste parole, per questo blog. Sono le parole di un fratello, alle quali non bisogna aggiungere altro. Solo il desiderio di ascoltare, di farle crescere dentro, leggendo anche ciò che a parole non si riesce a dire. Grazie Matteo. 

...perchè sono vivi!!
Era un sabato quel 15 gennaio.
Pino uscì di casa. E non vi fece più ritorno. Per lui, e su di lui, le forze del male avevano concentrato le attenzioni.
Per Pino, 'altri' avevano pensato e immaginato che la sua morte avrebbe portato loro un ritorno in termini di 'potere' e 'onore'.
La chiamano 'dignitudine'.
"Dimostrare di avere il controllo sulla famiglia equivale a dimostrare di avere il controllo sul territorio" - "parlano così tra di loro, parlano dell'onore e della dignitudine, cioè della considerazione che gli altri hanno di te; la dignitudine è quella sorta di intersezione tra i concetti di onore e di riconoscimento pubblico e privato...la dignitudine è ciò che deve essere tutelato nella percezione altrui" (in "Onore e Dignitudine" -Falco Editore-Garofalo/Ioppolo 2015).
Pino vittima innocente di questa mentalità. Una subcultura mafiosa che storpia il vero significato dei termini e delle parole, per conseguire consenso. Usare strategicamente la violenza, colpendo un ragazzo innocente, per conseguire "potere, onore e dignitudine".
Dopo quel tragico evento, nulla è stato più come prima.
Per me, che cresciuto all'ombra di Pino (lui più grande di me di due anni), è stato come perdere parte della tua stessa vita ed esistenza.
Siamo cresciuti in simbiosi. I ricordi. Le uscite. Le piccole liti...ma Pino per me era il 'leader'.
E' successo a tutti noi che abbiamo avuto un fratello maggiore. Ricordo che quando litigavo da bambino con i coetanei...."beh ora lo dico a Pino. Pino mi difenderà". Lui è più forte.
Ricordi ed emozioni che sono sempre lì. Che ti tormentano le notti.
Che ti rincuorano allo stesso tempo, per il sol fatto che ci sono. I ricordi appunto. La memoria.
Il tragico evento, che ti cambia. Ti trasforma. Ti fa provare tanta rabbia, tanto dolore. Tanti perchè..."perchè a noi, perchè alla nostra famiglia. Perchè a Pino".
Ed il dopo.
I giorni dopo. I mesi dopo. Gli anni dopo.
I giorni dopo, fatti di lacrime. Silenzi. Dolore.
I mesi dopo, fatti di prime elaborazioni. E più i mesi passano più questa tua metamorfosi si manifesta. Inizi, o meglio, riesci, con fatica, con dolore, a far uscire dalle tue labbra qualche piccola sommessa parola su di lui. Ma funziona come il mantice della fisarmonica. A piccole aperture, seguono veloci chiusure.
Parli di lui...ma subito ti chiudi. E nuovi silenzi.
Gli anni dopo, fatti di tante cose belle. E' vero. Quando uccidono un familiare, anche il resto della famiglia viene colpito a morte.
Ma la straordinarietà del dopo è altro.
Se hai la fortuna di incontrare sul tuo cammino persone 'speciali'.
Altri che come te hanno subito lo stesso dolore e le stesse sensazioni ed emozioni.
Se hai la fortuna di incontrare sul tuo percorso tanti bei volti e tante belle persone.
E da loro e con loro, tutti quei perchè impari a trasformarli in altro.
Si trasformano in impegno. Impegno a tenere viva ed alta la memoria che non va assolutamente dispersa. Memorie, vero sì, private, ma che messe tutte assieme, diventano per forza di cose, per dovere e senso civico, memorie collettive.
Sarebbe peccato mortale e grave, ucciderli una seconda volta.
La si darebbe vinta alle forze del male, che preferiscono il silenzio e la rassegnazione.
Ti rendi conto che tutti quei perchè, non restituiscono dignità alcuna nè a Pino nè a tutte le vittime innocenti della criminalità organizzata.
Quei perchè devono per forza diventare altro. Devono essere altro.
Ed appunto il 'dopo'. Il dopo fatto di percorsi. Il dopo fatto di impegno. Il dopo fatto di un camminare lungo i sentieri della speranza per ribadire sempre con forza che vince sempre la vita. Vince sempre il bello. Vince sempre la voglia di fare di più.
Il dopo fatto di voglia di mettersi in gioco. Il dopo fatto di belle esperienze che vivi e costruisci.
Il dopo fatto dai volti e dagli sguardi di centinaia e centinaia di ragazzi che incroci, che dicono una cosa sola.
Ci siamo. Siamo con voi. Siamo vicini al vostro dolore e assieme possiamo essere comunità. Fare rete. Elaborare e definire programmi e progettualità per costruire una società più attenta e più responsabile.
Il volto e lo sguardo di altrettanti ragazzi e adulti, che nel percorso della loro vita hanno sbagliato e stanno pagando per le conseguenze di quegli errori.
Ed anche lì, una parola di speranza. Si parla. Si chiacchiera. Ci si racconta e si racconta un dramma ed un vissuto.
E si ascolta. Si ascoltano storie e altrettanti drammi.
E ci si sforza di capire. Comprendere il percorso riparativo. La pena.
Tutto ha un senso.
Il senso per me, di non vedere dall'altra parte solo la persona che ha sbagliato. Solo il criminale. Solo l'assassino.
Ho bisogno, e abbiamo bisogno di non alzare muri.
Ho tantissimo rispetto della sensibilità e dei percorsi dei miei cari amici e fratelli e sorelle, familiari di vittime innocenti della criminalità che vivono in altro modo situazioni così. Le comprendo. Le accetto. Gli voglio bene.
Io sento solo il bisogno, da persona che vive una comunità, quale è Libera, di andare oltre con lo sguardo. Con la mente. Con il cuore.
Andare oltre quella barriera, per non precludere e me stesso, a Pino ed a tutti quei nomi e quei volti la possibilità di guardare l'infinito fatto delle tante cose belle di cui prima.
Perchè sono ancora vivi. Sono vivi in noi. Sono vivi con noi e per noi.
Sono vivi in quell'infinito fatto di speranza e civiltà.

Matteo Luzza

lunedì 9 gennaio 2017

Con eleganza, fermezza, e umiltà. Accanto a Marisa Manzini.




È il 30 dicembre 2016, ultimo giorno della requisitoria del processo denominato “Black Money”. Entrare in un'aula di tribunale è sempre un'esperienza forte, specialmente per i non addetti ai lavori. Soprattutto quando si entra per stare accanto a qualcuno o qualcuna, per un gesto di vicinanza ma anche dall'alto valore politico e simbolico. Perché se la ‘ndrangheta si nutre di "immaginario", è sullo stesso campo che bisogna agire. Se la ‘ndrangheta colpisce il simbolico, è su quel piano che bisogna muoversi.
L’aula è piena di avvocati, familiari degli imputati (tanti e giovani) e giornalisti. Ci siamo anche noi, un gruppetto di donne che su invito del Centro di Women's Studies Milly Villa ha scelto di esserci per stare accanto alla PM Marisa Manzini.
Refrattarie alle passerelle, abbiamo scelto di esserci perché esprimere solidarietà implica metterci la faccia. In altri termini: "starci", vivere quei momenti importanti in cui il potere maschile e maschilista della ‘ndrangheta è visibile, evidente. In risposta a quel “stai zitta tu” che l’imputato Pantaleone Mancuso ha rivolto alla dottoressa Manzini proprio mentre ricordava la storia di Tita Buccafusca, donna suicidata (perché sì, in Calabria il verbo suicidarsi non è solo riflessivo) sono state pronunciate parole dettagliate e chiare rivelatrici dei vari intrecci e modi in cui avviene il radicamento e rafforzamento del potere 'ndranghetista.
Tre giorni, quindici ore di requisitoria conclusasi con numerose richieste di condanna. E, alla fine, "zitta" Marisa Manzini non c’è rimasta. Ha continuato con determinazione, eleganza, fierezza e finezza. Pochi metri la separavano dagli imputati: i "loro" sguardi fissi e pesanti. Si muovevano avanti e indietro, cercando un varco per fissarla tra le spalle degli uomini che ogni giorno la proteggono lontano dai clamori.
Marisa Manzini per questa terra è una presenza preziosa. Perché dimostra a noi tutte, cittadine prima di tutto calabresi, che si può e si deve lottare contro il potere che ci vuole zitte, chiuse, incapaci. Contro quel potere che vorrebbe Procure silenziose e timide. È presenza preziosa perché ci dimostra che si può non cedere alla tentazione della mascolinizzazione, e che la lotta alla ‘ndrangheta si deve portare avanti rimanendo se stesse, donne. E’ presenza preziosa perché è quel pungolo nelle nostre coscienze che ci invita a non stare ferme, a muoverci con eleganza, fermezza, e umiltà.
Poi ci siamo noi: in piedi accanto o sedute dietro. Non siamo molte, ma ognuna di noi si porta dietro una storia importante, fatta per Giovanna e Marta di un intreccio generoso tra avvocatura e militanza in Libera, per me fatta di ricerca, studio e militanza antindrangheta. E tra noi c’è Maria Joel, giovanissima donna iscritta al primo anno di Giurisprudenza. Ha gli occhi grandi, un sorriso bellissimo, ha ricevuto il nostro sms ed è venuta, è una giovane militante di Libera a Vibo Valentia. Non ci conosce ma ha subito accolto la nostra proposta, perché è giusto esserci, mi ha detto. Ha lo sguardo emozionato, la osservo mentre guarda con ammirazione la dottoressa Manzini, si vede che è emozionata.

La guardo e penso che sì, c’è speranza.

Che la speranza è in Calabria, vedere una giovane donna in una aula di tribunale che (in un giorno di vacanza) sta accanto - nel significato più intenso di vicinanza- a una donna, magistrata che ha scelto questa terra come terreno di lotta e di dignità.