È il 30 dicembre 2016, ultimo
giorno della requisitoria del processo denominato “Black Money”. Entrare in
un'aula di tribunale è sempre un'esperienza forte, specialmente per i non
addetti ai lavori. Soprattutto quando si entra per stare accanto a qualcuno o
qualcuna, per un gesto di vicinanza ma anche dall'alto valore politico e
simbolico. Perché se la ‘ndrangheta si nutre di "immaginario", è sullo
stesso campo che bisogna agire. Se la ‘ndrangheta colpisce il simbolico, è su
quel piano che bisogna muoversi.
L’aula è piena di
avvocati, familiari degli imputati (tanti e giovani) e giornalisti. Ci siamo
anche noi, un gruppetto di donne che su invito del Centro di Women's Studies Milly Villa ha scelto di esserci per
stare accanto alla PM Marisa Manzini.
Refrattarie alle
passerelle, abbiamo scelto di esserci perché esprimere solidarietà implica
metterci la faccia. In altri termini: "starci", vivere quei momenti
importanti in cui il potere maschile e maschilista della ‘ndrangheta è
visibile, evidente. In risposta a quel “stai zitta tu” che l’imputato
Pantaleone Mancuso ha rivolto alla dottoressa Manzini proprio mentre ricordava
la storia di Tita Buccafusca, donna suicidata (perché sì, in Calabria il verbo
suicidarsi non è solo riflessivo) sono state pronunciate parole dettagliate e
chiare rivelatrici dei vari intrecci e modi in cui avviene il radicamento e
rafforzamento del potere 'ndranghetista.
Tre giorni, quindici ore
di requisitoria conclusasi con numerose richieste di condanna. E, alla fine,
"zitta" Marisa Manzini non c’è rimasta. Ha continuato con
determinazione, eleganza, fierezza e finezza. Pochi metri la separavano dagli
imputati: i "loro" sguardi fissi e pesanti. Si muovevano avanti e
indietro, cercando un varco per fissarla tra le spalle degli uomini che ogni
giorno la proteggono lontano dai clamori.
Marisa Manzini per questa
terra è una presenza preziosa. Perché dimostra a noi tutte, cittadine prima di
tutto calabresi, che si può e si deve lottare contro il potere che ci vuole
zitte, chiuse, incapaci. Contro quel potere che vorrebbe Procure silenziose e
timide. È presenza preziosa perché ci dimostra che si può non cedere alla
tentazione della mascolinizzazione, e che la lotta alla ‘ndrangheta si deve
portare avanti rimanendo se stesse, donne. E’ presenza preziosa perché è quel
pungolo nelle nostre coscienze che ci invita a non stare ferme, a muoverci con
eleganza, fermezza, e umiltà.
Poi ci siamo noi: in
piedi accanto o sedute dietro. Non siamo molte, ma ognuna di noi si porta
dietro una storia importante, fatta per Giovanna e Marta di un intreccio
generoso tra avvocatura e militanza in Libera, per me fatta di ricerca, studio
e militanza antindrangheta. E tra noi c’è Maria Joel, giovanissima donna
iscritta al primo anno di Giurisprudenza. Ha gli occhi grandi, un sorriso
bellissimo, ha ricevuto il nostro sms ed è venuta, è una giovane militante di
Libera a Vibo Valentia. Non ci conosce ma ha subito accolto la nostra proposta,
perché è giusto esserci, mi ha detto. Ha lo sguardo emozionato, la osservo mentre
guarda con ammirazione la dottoressa Manzini, si vede che è emozionata.
La guardo e penso che sì,
c’è speranza.
Che la speranza è in
Calabria, vedere una giovane donna in una aula di tribunale che (in un giorno
di vacanza) sta accanto - nel significato più intenso di vicinanza- a una
donna, magistrata che ha scelto questa terra come terreno di lotta e di
dignità.
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