La rotta...

La cosa più importante per chi non ha potere è avere almeno un sogno
Da "La terrazza proibita" di Fatima Mernissi

lunedì 9 gennaio 2017

Con eleganza, fermezza, e umiltà. Accanto a Marisa Manzini.




È il 30 dicembre 2016, ultimo giorno della requisitoria del processo denominato “Black Money”. Entrare in un'aula di tribunale è sempre un'esperienza forte, specialmente per i non addetti ai lavori. Soprattutto quando si entra per stare accanto a qualcuno o qualcuna, per un gesto di vicinanza ma anche dall'alto valore politico e simbolico. Perché se la ‘ndrangheta si nutre di "immaginario", è sullo stesso campo che bisogna agire. Se la ‘ndrangheta colpisce il simbolico, è su quel piano che bisogna muoversi.
L’aula è piena di avvocati, familiari degli imputati (tanti e giovani) e giornalisti. Ci siamo anche noi, un gruppetto di donne che su invito del Centro di Women's Studies Milly Villa ha scelto di esserci per stare accanto alla PM Marisa Manzini.
Refrattarie alle passerelle, abbiamo scelto di esserci perché esprimere solidarietà implica metterci la faccia. In altri termini: "starci", vivere quei momenti importanti in cui il potere maschile e maschilista della ‘ndrangheta è visibile, evidente. In risposta a quel “stai zitta tu” che l’imputato Pantaleone Mancuso ha rivolto alla dottoressa Manzini proprio mentre ricordava la storia di Tita Buccafusca, donna suicidata (perché sì, in Calabria il verbo suicidarsi non è solo riflessivo) sono state pronunciate parole dettagliate e chiare rivelatrici dei vari intrecci e modi in cui avviene il radicamento e rafforzamento del potere 'ndranghetista.
Tre giorni, quindici ore di requisitoria conclusasi con numerose richieste di condanna. E, alla fine, "zitta" Marisa Manzini non c’è rimasta. Ha continuato con determinazione, eleganza, fierezza e finezza. Pochi metri la separavano dagli imputati: i "loro" sguardi fissi e pesanti. Si muovevano avanti e indietro, cercando un varco per fissarla tra le spalle degli uomini che ogni giorno la proteggono lontano dai clamori.
Marisa Manzini per questa terra è una presenza preziosa. Perché dimostra a noi tutte, cittadine prima di tutto calabresi, che si può e si deve lottare contro il potere che ci vuole zitte, chiuse, incapaci. Contro quel potere che vorrebbe Procure silenziose e timide. È presenza preziosa perché ci dimostra che si può non cedere alla tentazione della mascolinizzazione, e che la lotta alla ‘ndrangheta si deve portare avanti rimanendo se stesse, donne. E’ presenza preziosa perché è quel pungolo nelle nostre coscienze che ci invita a non stare ferme, a muoverci con eleganza, fermezza, e umiltà.
Poi ci siamo noi: in piedi accanto o sedute dietro. Non siamo molte, ma ognuna di noi si porta dietro una storia importante, fatta per Giovanna e Marta di un intreccio generoso tra avvocatura e militanza in Libera, per me fatta di ricerca, studio e militanza antindrangheta. E tra noi c’è Maria Joel, giovanissima donna iscritta al primo anno di Giurisprudenza. Ha gli occhi grandi, un sorriso bellissimo, ha ricevuto il nostro sms ed è venuta, è una giovane militante di Libera a Vibo Valentia. Non ci conosce ma ha subito accolto la nostra proposta, perché è giusto esserci, mi ha detto. Ha lo sguardo emozionato, la osservo mentre guarda con ammirazione la dottoressa Manzini, si vede che è emozionata.

La guardo e penso che sì, c’è speranza.

Che la speranza è in Calabria, vedere una giovane donna in una aula di tribunale che (in un giorno di vacanza) sta accanto - nel significato più intenso di vicinanza- a una donna, magistrata che ha scelto questa terra come terreno di lotta e di dignità. 

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