La rotta...

La cosa più importante per chi non ha potere è avere almeno un sogno
Da "La terrazza proibita" di Fatima Mernissi

martedì 25 ottobre 2016

“In Calabria la mia vita è cambiata", con Marisa Manzini

Presentazione di "Onore e Dignitudine" a Vibo 

“In Calabria la mia vita è cambiata. Rimasi affascinata da una terra ricca di mille contraddizioni. Una terra che mescola il clima caldo e le onde frizzanti del Mediterraneo con l’asprezza e la fierezza dei monti. Ma l’ampiezza degli spazi naturali, la superbia di una natura libera e prorompente, deve fare i conti con presenze umane violente e sprezzanti, che impongono spazi chiusi, ritagliati, sorvegliati, in cui gli avvenimenti sono registrati e insistentemente controllati. Dove le malignità degli uomini non risparmiano neppure i bambini. 
Deve fare i conti con un potere mafioso esercitato senza interruzione e senza scampo.”


Queste parole sono state scritte da Marisa Manzini nella prefazione di “onore e dignitudine” ricerca condotta da Ludovica Ioppolo, Norma Ferrara e me negli ultimi anni. Non abbiamo avuto dubbi su chi fosse la persona giusta per introdurre il senso del nostro libro, e non ci siamo sbagliate. Solo una donna come lei poteva trovare queste parole per descrivere la Calabria, solo una persona con lo sguardo in cerca di giustizia poteva parlarci così di potere della 'ndrangheta. 
Magistrata, ora Procuratrice Aggiunta della Procura della Repubblica di Cosenza, non ama parlare di quello che le sta accadendo. Un aumento della tutela, “messo in conto” come dice lei per chi sceglie di fare il magistrato. Ma uno sguardo più attento non può non capire che si sta giocando anche un’altra partita in queste ore, in un campo che è quello del potere che si traduce in dinamiche di mancato riconoscimento nelle relazioni istituzionale- da magistrata- e nelle relazioni di genere- da donna. 
Le parole pronunciate durante l’udienza del processo “Black money” contro Marisa Manzini suonano come una minaccia diretta in un contesto di potere tutto al maschile. Per cui alla manifesta intenzione di ribadire la supremazia sulla vita delle persone, si associa quel latente messaggio che consiste nel ribadire che essere donna significa non avere il diritto di parola, e quindi di esistere.
Ancor di più, se chi parla era il marito di una donna suicidata, Tita Buccafusca, vittima del potere della ‘ndrangheta in quel confine incerto tra la vita e la ndrangheta, che si era rivolta proprio a Marisa Manzini nella sua scelta- dolorosa, tormentata e purtroppo non definitiva- di libertà. 
Tutto questo, agito in un contesto tipicamente maschile, quello dei tribunali: luoghi declinati al maschile, in cui si muovono relazioni trasversalmente attraversate dal potere. Perché la ndrangheta è uno spazio di potere maschile, che esclude le donne, che esistono solo perché legittimate da una presenza e da un potere maschile. La 'ndrangheta traduce il suo potere totale dai territori ai corpi, ai desideri e agli affetti, sui corpi delle donne come conquista coloniale, e la cronaca di oggi continua a dimostralo duramente. 
Il silenzio dei giorni successivi corre il rischio di legittimare e rafforzare questo insieme di stereotipi, di far passare in secondo piano quanto accaduto. 
Perché se il pudore di Marisa Manzini lascia una grande lezione di dignità e serietà, il silenzio della società civile spaventa. Non si può correre il rischio di sminuire quanto accaduto, non è solo “una questione di donne”, come si è soliti tirar fuori in certi casi. 
Subire una minaccia, intimidazione significa fare i conti con il proprio essere ed esserci, e lasciare sole chi ne è vittima è un rischio e una responsabilità gravissima. 
Per la dottoressa Manzini non c’è stata nessuna campagna sui social network, poche manifeste solidarietà, che seppur a niente servono, inducono alla riflessione e alla presa di responsabilità. Forse perché in pochi conosciamo la storia e il contesto in cui ciò è avvenuto, forse perché a poco a poco e senza fuochi d’artificio, questa procuratrice sta smuovendo un po’ di equilibri. Forse per indifferenza o forse perché è donna, e allora è più facile fare una battuta o sminuire il suo operato. 
Io penso che donne come Marisa Manzini possano solo fare del bene e fare bene alla nostra terra. Perché nella dignità silenziosa del lavoro quotidiano, nell’accoglienza di uno sguardo, nella bellezza del confronto, nella “cura del lei” nelle relazioni, dimostra a tutte e tutti che le parole di un uomo di ‘ndrangheta non valgono più nulla, perché sono dette da chi ha sempre meno consenso, e quindi, sempre meno potere. 

Per me la solidarietà verso Marisa Manzini non è un atto dovuto, né una parola al vento: io sono solidale nei termini più belli che questo concetto ci permette. Perché sento di camminare insieme, di essere dalla stessa parte, di essere insieme alle tante donne in Calabria che lottano contro questo potere. 


sabato 15 ottobre 2016

E' la pratica che rompe la grammatica...di genere!




Il Women and Gender Studies Centre Milly Villa esiste dal 1997, frutto di un percorso sedimentato di donne che hanno fatto la storia di questa terra. Percorsi complessi, conflittuali, ma anche carichi di quel desiderio di autodeterminazione, di libertà, di emancipazione per le donne. 

Io sono cresciuta qui, con tante donne che mi hanno preso per mano, lasciandomi camminare da sola. Tra i banchi di Scienze Politiche ho incontrato chi in un modo o nell'altro ha contribuito a rendermi la persona che sono. Un confronto intergenerazionale, scambio di saperi e di esperienze, di una idea di ricerca epistemologicamente femminile e femminista. 

Un Centro, che tra mille difficoltà ha continuato in questi anni ad essere cornice di ricerche e di progetti, di corsi e di momenti formativi per il territorio, portati avanti in una costante dialettica tra presente e passato, tra qui ed altrove. 

Laura Boldrini, presidente della Camera, ha scelto di devolvere i proventi del suo libro per sostenere un progetto di ricerca sul genere e di darne il coordinamento al centro di Women’s Studies. Un riconoscimento importante, alle soglie del suo ventesimo compleanno. 

Lo ha ricordato Giovanna Vingelli, direttora, durante la cerimonia di consegna della borsa di studio a Alessia Tuselli: con parole cariche di quella responsabilità che diventa cura di un percorso e di un progetto comune. 
“E’ un’attenzione credo anche alle donne calabresi- ha detto Giovanna Vingelli- Nella storia della Calabria le donne hanno ricoperto un ruolo tutt’altro che marginale e secondario. Nel periodo della grande emigrazione verso i paesi d’oltre oceano o negli anni che dalla fine della guerra arrivano alle occupazioni delle terre; o ancora nelle lotte portate avanti dalle raccoglitrici di olive negli anni Cinquanta e Sessanta e nelle lotte più recenti dei movimenti. donne forti in un contesto familiare/domestico, spesso vulnerabili nella contrattazione di spazi di libertà personali. Donne protagoniste di processi di mutamento socio-culturali che si incrociano con universi simbolici resistenti al cambiamento, con i vincoli materiali di un contesto difficile, con il peso opprimente del potere della ‘ndrangheta”.
La presidente Boldrini ha parlato del linguaggio, quel tanto decantato linguaggio di genere. E così che io sono dottora di ricerca, Giovanna è direttora, Laura Boldrini è la presidente. E poi c’è la ministra, la sindaca, l’ingegnera. E’ solo grammatica, ma come dice un caro amico, “è la pratica che rompe la grammatica”! 
Perché come ha ricordato Alessia, se non continuiamo a nominarci, non esistiamo. Perché se le questioni di genere sono ancora un problema, è anche per questo, e il linguaggio è il primo campo in cui il potere gioca. Ancor di più in Calabria, ancor di più laddove in una aula di tribunale un ominicchio di ‘ndrangheta si permette tra il silenzio di tutti, di dire ad una magistrata “stai zitta” (e di questo ne scriverò a breve).

Io sono fiera di essere parte di questo spazio e di questo tempo che è il Centro di Women’s Studies Milly Villa, e lo sono anche delle parole della direttora Giovanna Vingelli, che ringrazio per aver trovato il modo giusto per raccontare la nostra storia, che è fatta anche di ricerca precaria – pericolosissima- su questi temi, accompagnata da una faticosa lotta per il riconoscimento, troppo spesso negato. 

“In università come altrove non possiamo sottacere vincoli e difficoltà. Tutte e tutti siamo consapevoli delle criticità che attraversa il sistema dell’istruzione pubblica: il Centro vive grazie alle meravigliose donne che lo hanno fondato, che lo hanno accompagnato in questi anni, e a una nuova generazione di ricercatrici che si occupano di migrazioni, di violenza di genere, di ndrangheta, di nuove maschilità. E che vivono una condizione di precariato dolorosa, spesso accompagnato da un parziale riconoscimento del valore dei loro studi, proprio perché studi di genere, considerati, soprattutto in questi ultimi anni, residuali, superflui, persino pericolosi.
Voglio rivendicare questa pericolosità, che è la pericolosità della sfida al potere, alle disuguaglianze e alle discriminazioni.
Ringrazio nuovamente, in maniera non formale, la Presidente della Camera, on.le Laura Boldrini, per l’attenzione che ci ha mostrato; e la ringrazio per l’attenzione con cui guarda ai territori.
Alcuni potrebbero definirli territori marginali: accetto questa definizione nei termini dell’attivista afroamericana bell hooks, secondo la quale il margine non è solo luogo di privazione, imposta da strutture oppressive, ma anche spazio di resistenza, di radicale possibilità”.

venerdì 7 ottobre 2016

I contenuti sovversivi della memoria.







“Ricordare il passato può dare origine ad intuizioni pericolose, e la società stabilita sembra temere i contenuti sovversivi della memoria. Ricordare è un modo di dissociarsi dai fatti come sono… e negli eventi personali dell’individuo si affermano le paure e le aspirazioni dell’umanità- l’universale ed il particolare” (Marcuse 1967).

Una comunità di memoria. 
Negli ultimi anni ho conosciuto le storie di tante donne e uomini che in Calabria (e non solo) hanno vissuto vite ordinarie, normali, quotidiane. Storie di persone uccise dalla mano ‘ndranghetista, accomunate dalla violenza di un potere che decide di non far vivere più. Storie di morte, ma storie di vita. La “comunità di memoria” di cui ho fatto parte e di cui mi sento parte, è stato lo spazio della condivisione di piccole storie, della creazione di legami forti radicati nel terreno comune della dignità. I familiari delle vittime innocenti della ’ndrangheta rappresentano quel monito vivente per una terra che fa fatica a ricordare. Perché ricordare è un atto di grande responsabilità: perché quelle morti sono ferite aperte per chi continua a chiedere verità e giustizia; perché sappiamo che potevano essere evitate; perché dovremmo impegnarci affinché non possa più accadere. E non solo. Ricordare è fare i conti con un potere che nega agli individui il riconoscimento in quanto donne e uomini liberi. Ricordare è un percorso formativo, fatto di ascolto, di narrazione, di letture, di carte e di emozioni. È una fatica, è una cura: nella scelta delle parole per dire, dei silenzi da cogliere, nei modi e nello stile del rispetto di un dolore che è intimo, personale, innominabile. Nel rispetto e nella cura, rientra quel grande sentimento di riconoscenza e gratitudine che a loro dobbiamo. Perché prendendoci per mano, nel rispetto dei tempi e dei modi di ognuna e ognuno, ci stanno accompagnando nell'attraversare quel ponte dal privato al pubblico, per farne memoria collettiva. I familiari delle vittime innocenti non devono essere semplicemente chiamati "vittime": non lo sono. Lo stanno ripetendo in tutti i modi: sono cittadine e cittadini che vogliono vivere il loro ricordo traducendolo in quotidiane e piccole attività cariche di etica, di responsabilità, di dignità e di libertà.  Il cui contenuto sovversivo non dobbiamo temere, anzi.

Demetrio Quattrone.
La storia della Calabria può essere contro-narrata a partire dalla storia di chi è stato ucciso. Una contro-narrazione rispetto al grande narrazione che il potere stesso vuole mantenere.
Tra queste storie, quella di Demetrio Quattrone. Dopo 25 anni dal suo omicidio, ieri per la prima volta c’è stato chi ne ha voluto parlare in una dimensione mediatica nuova. Ci sono voluti due bravi giornalisti, Pietro Comito e Agostino Pantano, per raccogliere questa storia, accoglierne il ricordo e coglierne il senso profondo di un impegno e di un legame con la storia di questa terra.
Io penso che per conoscere Demetrio Quattrone bisogna rileggere le sue parole, chiare e terribilmente attuali. Sono gli anni ’90 e Mimmo (come tutti lo chiamavano) era un ispettore del lavoro, ingegnere di 42 anni, che non smette di denunciare quanto accadeva a Reggio Calabria. Così scrive:

“Il partito dei palazzinari a Reggio governa la città. Come si diceva, l’affare assicurato periodicamente e senza programmazione dallo Stato porta flussi di denaro che non vengono reinvestiti nell’azienda che avrebbe dovuto produrre il bene oggetto dell’appalto. Detti flussi di denaro vengono trasformati in “cemento” da vendere poi alla classe impiegatizia, molto numerosa, reggina. Ma indirizzare il mercato verso queste scelte (casa edificata dal palazzinaro) significa fare in modo che l’offerta sia la più piccola possibile. Da qui il partito dei palazzinari ha una scelta quasi obbligata: bloccare con sistemi di potere l’attività degli uffici comunali preposti alla progettazione dell’uso del territorio. Si arriva a bloccare le progettazioni di cittadini fuori dal giro dei palazzinari per anni, facendo “passare” le progettazioni del partito dei palazzinari stessi. Parole che da sole bastano per descrivere quel meccanismo di trasformazione del denaro in cemento attraverso un sistema di relazioni conniventi e conviventi”.

Parole chiare, che spiegano con semplicità meccanismi complessi di riciclaggio, corruzione, collusione, reati ambientali. Per queste parole e per tutte quelle che ha avuto il coraggio, l’etica e la serietà professionale di scrivere, Demetrio viene ucciso il 28 settembre 1991, insieme al suo amico Nicola Soverino. Negli stessi anni, la mafia del cemento uccide il vigile Macheda (impegnato nella lotta contro l’abusivismo edilizio) e l’imprenditore edile Polifroni (dopo anni di resistenza alle richieste estorsive e di denuncia).

Memoria, amicizia, libertà 

Conosco Rosa Quattrone da anni. Da lei e con lei ho imparato che la ndrangheta si combatte anche a partire dall’estetica, dalla bellezza, dalle scelte urbane e urbanistiche, dai colori. Ho imparato che l’etica della professione fa parte integrante della memoria, che essere architetti in Calabria significa costruire bellezza, contro il brutto della ’ndrangheta. Con lei ho imparato la fatica del riconoscimento, il peso di un cognome visto da chi sa che è una che darà fastidio, per cui niente progetti su cui lavorare. Con lei ho condiviso lacrime di rabbia e di delusione, ma anche interminabili giornate di allegria, festa, gioia. Fino alla condivisione delle gioie più grandi, l’ultima la nascita della piccola Alice. Con Rosa, Nino, Maria Giovanna, e ora con Christian e Alice ho imparato che la libertà ha il loro volto.
Ci sono tanti modi per salutarsi. Tanti modi per augurare ad una amica Buon Viaggio.
Tanti modi per ricordarle che niente è stato vano, che bisogna ripartire dalle ferite per ricominciare. Per augurare una nuova buona vita. Per dirci che ci vogliamo bene. Ieri Pietro e Agostino mi hanno permesso di regalare a me stessa e alla mia terra la storia di Demetrio, e di Rosa. A Rosa questa terra deve molto, e spero che un giorno se ne possa rendere conto.

 Buon viaggio amica mia, si parte, ma per tornare. Ogni luogo sarà quello del ricordo, della memoria che non è slogan, ma è vita. E’ libertà. Così come diceva il tuo papà:  

“L’uomo non è né stupido né intelligente. O è libero o non lo è. All’ infuori della libertà non si ha niente”



Per approfondire:

domenica 2 ottobre 2016

Il tre ottobre a Lampedusa. Memoria e Mediterraneo.


Le parole dei sopravvissuti.
I confini sono da tempo la mia passione. Ho iniziato a studiarli, a usarli come categoria, a leggere tutto ciò che ne facesse anche minimamente riferimento, a viverli. Da Elogio del margine di bell hooks, a La terrazza proibita di Fatima Mernissi, ai saggi sociologici e filosofici. E studiando le migrazioni, non si può non attraversarli questi confini, farne esperienza, passarci attraverso. Attraversare un confine significa renderlo frontiera, vivere quello spazio tra una linea e l’altra.
L’ho imparato attraversando un muro, qualche anno fa, quel muro in Palestina che ti costringe a pensare alle dinamiche di potere e di controllo, a quell'atto sociale e politico che è la creazione stessa dei confini. Scegliere il confine come categoria induce ad un’altra conseguente scelta, quella di vivere il confine, di sceglierlo come luogo – spazio e tempo- di ricerca. Per questo mi sono trovata prima nel Pas de Calais, poi in Sicilia e poi ancora a Pantelleria e poi ancora a Lampedusa. Una scelta precisa, quella di studiare le migrazioni a partire dai confini, dai quei luoghi di passaggio -dall'estremo nord all'estremo sud- per coglierne dinamiche, aspetti e soprattutto per “mettere a lavoro” quelle categorie così tanto certe, ancore sicure.
Chi in un modo o nell'altro è stato a Lampedusa, ha certamente cambiato il punto di vista sulle migrazioni e sul Mediterraneo. Stare a Lampedusa significa decostruire quel processo di costruzione dell’immaginario migratorio fatto di stereotipi e pregiudizi, ma anche di chiavi interpretative ormai obsolete, che poco servono a leggere la realtà. In questi giorni sentiremo parlare di Lampedusa, delle “stragi di Lampedusa”, del tre ottobre.
La riflessione che da un po’ di tempo mi porto dentro ha a che fare con la dinamica per cui si continua a delegare a Lampedusa quel ruolo di frontiera unica, come se si potessero concentrare tutte le frontiere marittime in un unico punto. Quell'unico luogo che nella sicurezza della deresponsabilizzazione, permette alla società di non trasformare la memoria di quello che è accaduto in memoria collettiva. Lampedusa viene definita “l’isola del rimosso” (Liberti 2008), luogo che permette attraverso grandi processi mediatici di essere visibile e allo stesso tempo, di rendere invisibile quello che accade quotidianamente in tutto il Mediterraneo. Visibilità e invisibilità si intersecano quindi con il tema della memoria, individuale e collettiva.
Stare a Lampedusa significa questo: comprendere quel legame sottile tra l’esperienza dei singoli e la narrazione collettiva, tra la memoria dei luoghi fisici con quella mediatica e virtuale. Non è facile parlare di Lampedusa cercando di schivare la retorica e superando la dicotomia dell’isola che si muove tra accoglienza e chiusura. Lampedusa è uno spazio, è un tempo, e uno spazio-movimento come diceva Bourdieu (1987), è uno spazio migratorio, è una frontiera: è quel luogo del lontano che diventa vicino, e del vicino che si allontana.
Per capire questo legame tra le storie individuali e quelle collettive, la scelta metodologica da fare è quella dell’ascolto, dell’incontro. Dopo un anno esatto da quel 3 ottobre decisi di stare a Lampedusa, volevo capire come l’isola avesse vissuto quell’anno così mediaticamente invasivo e volevo farlo dalla strada, dai bar, dalla spiaggia, ascoltando chi c’era. In quei giorni ho esattamente compreso cosa intendesse Cuttitta (2012) nel suo libro “lo spettacolo del confine”: la ribalta teatrale, Lampedusa che da confine diventa frontiera e poi palcoscenico.
In quei giorni erano fortemente visibili quei mondi così diversi tra loro, uno fatto di servizi televisivi e interviste in uno spazio creato ad hoc in mezzo a quello che allora era il “cimitero delle barche”, l’altro dei lampedusani, quasi infastiditi da questo clamore, e che invece avrebbero voluto raccontare un’altra storia, ostacolati però da quel pudore e rispetto verso la tragedia che loro stessi avevano vissuto.
Il silenzio dei soccorritori dice molto, racconta tanto del 3 ottobre e di tutti quei naufragi taciuti, e molto dice- o meglio ha detto visto si sta sviluppando una produzione filmica proprio su questo- la non visibilità di questa narrazione nel discorso pubblico.
E così che superando la diffidenza dovuta alla presenza in anni di centinaia di ricercatori sociali e giornalisti, nell'informalità di una conversazione viene fuori quel silenzio, tradotto in sguardi, parole, gesti. Le migliori “interviste” per me sono state così, nella quotidianità di un caffè, di una panchina, in una sala d’attesa in aeroporto.
“Nel 2011, in quei giorni, io e mia moglie lasciavamo da mangiare sul tavolo, così quando entravano lo trovavano. Erano disperati, cercavano da mangiare. Anche se entravano da ladri in casa, non rubavano niente. Cercavano da mangiare”. Lo ha detto un signore accompagnandomi gentilmente a prendere l’aereo, e credo di non aver mai avuto una descrizione migliore di quella che mediaticamente era nominata “l’emergenza a Lampedusa”. Un riconoscimento del proprio essere situati e della solidarietà che non si traduce in rabbia e divisione- pur nella stranezza di questa narrazione- ma in dinamiche quotidiane di solidarietà che di sicuro, non ci si aspetta.
Un ritardo di un aereo da Tunisi mi ha permesso di stare ore a parlare con un anziano signore, un vecchio pescatore di quelli che staresti ore ad ascoltare.  Abbiamo parlato della pesca, delle difficoltà di oggi, dei mutamenti che ci sono stati nei decenni. “Ma ci sono giorni in cui maledici questo lavoro”, mi ha detto con gli occhi pieni di lacrime “quei giorni quando insieme ai pesci tiri su altro, è una cosa terribile, è una cosa terribile”.
Basta, non è servito aggiungere altro. Non c’è stato bisogno, perché quel silenzio di quegli attimi serviti a mandare giù il magone, aveva già detto tutto. Aveva spiegato senza dirlo, di come in tutto ciò si dimentica di ritornare ai corpi, alle persone, all'umano.
L’ascolto dei soccorritori e ancora di più dei sopravvissuti, permette di ritornare a ciò che è terribilmente umano nella sua disumanizzazione. Terribilmente umano nelle storie di tante donne e di tanti uomini, nelle loro scelte, e come mi ha da poco ricordato un giovane rifugiato, dei loro sogni.
È necessario quindi riconoscere e ascoltare i sopravvissuti, provare a vivere questo tre ottobre attraverso l’ascolto perché è con la parola che si può dare significato alla relazione tra presente, passato e futuro. Si dovrebbe cogliere l’occasione del tre ottobre per fa sì che questi temi possano entrare anche nel discorso pubblico calabrese, terra di approdo per tante persone, caratteristica poco messa a tema. La Calabria è terra di accoglienza, terra di modelli nuovi e nuove pratiche, di sistemi forse legali ma sicuramente poco trasparenti e giusti, che in ogni caso fatica a riconoscersi come luogo mediterraneo e frontiera marittima.
Da qui, dalla Calabria, anche essa luogo di confine, è quindi possibile comprendere come quella del tre ottobre e del Mediterraneo in generale è una memoria senza dimora, perché è il risultato di un processo di dislocazione, che è annullamento delle responsabilità. Lampedusa è diventata questo, il luogo della dislocazione, il luogo del rimosso ma che in questa dinamica di contraddizioni e negazioni diventa il luogo che permette la rimozione stessa del lutto del Mediterraneo.
Tahar Lamri durante un incontro pubblico proprio a Lampedusa in occasione del primo anniversario del tre ottobre ha detto “la coscienza di trecento e più persone morte è elaborazione del lutto, permette di sentire che da qualche parte sei cattivo, e devi poi farci i conti”, e per questo che i tanti eventi commemorativi di questi giorni e gli artefatti non diventano costruzione politica, perché dovremmo farci i conti.
Utili per comprendere quello che stiamo vivendo sono le parole di Marta Vignola in La memoria desaparesida che parla di spazi e tempi della memoria, delle contraddizioni del “valore che si attribuisce ad una data (che) tende a mutare con il trascorrere del tempo a seconda che si cristallizzino e si istituzionalizzino differenti visioni”. 
Le “date ed anniversari sono dunque, congiunture di attivazione delle memorie dei differenti attori sociali nell'ambito della sfera pubblica, si riorganizzano gli eventi, si capovolgono spesso gli schemi esistenti, appaiono voci nuove e riemergono voci antiche che domandano, raccontano, creano spazi intersoggettivi, condividono ciò che hanno vissuto, ascoltato, omesso” (Vignola 2012 p. 33).
Il tre ottobre è la Giornata nazionale in memoria delle vittime dell'immigrazione, per ricordare chi "ha perso la vita nel tentativo di emigrare verso il nostro paese per sfuggire alle guerre, alle persecuzioni e alla miseria" (art.1- legge 21 marzo 2016, n. 45).
Ma il tre ottobre può essere l’occasione per ascoltare quei silenzi che non troveranno spazio nel clamore dei media di questi giorni, per far riemergere quelle voci, nuove e antiche, che rappresentano il punto di partenza per rielaborare e trovare modi nuovi per parlare di migrazione e di Mediterraneo. Deve diventare l’occasione per quei territori come la Calabria, che non riescono a riconoscersi come soggetti mediterranei, come attori politici che possono fare la differenza nella narrazione, nell'analisi e nella pratica politica. Senza dislocamenti e deresponsabilizzazioni.
Perché non è colpa della migrazione, ma delle mancanze politiche europee e mondiali, della gestione criminale del traffico di esseri umani e di tanto altro. Di sicuro non è colpa di chi desidera e di chi sogna, e di sicuro non è colpa del mare.

“Con questo vento non c’è possibilità” disse il Vecchio. E mi portò dove la strada tra la spiaggia e le case moriva.
C’era un’altura, piccola, di terra di risulta. 
Mi tenne lì, mi poggiò le mani sulle spalle; 
voleva vedessi e capissi. 
“Questa cosa qui non l’ha fatta il mare” disse. 
Quel che c’era da capire lo capii.

(Pazzano S., Beltempo, SabbiaRossa 2014)




Per approfondire:  Il cimitero delle barche


sabato 1 ottobre 2016

Si inizia!




E alla fine mi sono decisa. Un blog per scrivere, raccontare, approfondire. Uno spazio in cui raccogliere appunti di ricerca, idee, pensieri e riflessioni. Da ricercatrice sociale, da donna del Sud. Con il mio bagaglio di esperienze, di teoria sociale, di metodologia, di vita quotidiana.
"Messaggi nella bottiglia", da una poco conosciuta frase di Theodor Adorno, per riprendere non solo una metafora, ma anche il suo senso teorico, che si traduce nella mia volontà di ricercatrice di sondare approcci nuovi, che si scontrerà senza dubbio, con le mie convinzioni e sicurezze.
Messaggi nella bottiglia saranno tutte le parole che qui verranno scritte, le voci non ascoltate che incontrerò, gli approfondimenti che spero possano contribuire a leggere la realtà. 
Saranno storie di donne, di uomini, di Mediterraneo, di migrazioni. Di memoria, di 'ndrangheta, di movimento anti-'ndrangheta. Di precarietà, di lavoro, di dignità e libertà.  
Si inizia. I messaggi nella bottiglia partono così, senza la certezza di chi e come lo potrà raccogliere, ma affidati  al mare. 



da www.articolo21.org

La sentenza. Il 14 settembre presso il tribunale ordinario di Cosenza in composizione monocratica, è stata pronunciato il dispositivo di sentenza in merito all’imputato editore Pietro Citrigno dichiarato colpevole del reato di violenza privata contro il giornalista Alessandro Bozzo. Un processo che sarebbe dovuto iniziare già negli ultimi mesi del 2014, in seguito alla consegna da parte della famiglia Bozzo dei diari di Alessandro. Pagine che sono diventate prove documentarie durante il processo, corroborate dalle mail inviate da Alessandro e dalle testimonianze dei colleghi che, udienza dopo udienza, hanno disegnato il quadro della situazione nella redazione di Calabria Ora.
Alessandro Bozzo, giornalista. Ma non solo. Dalle pagine dei diari e dalle parole dei testimoni, emergono con chiarezza i tratti distintivi del giornalista, nella consapevolezza che di lui si debba raccontare la sua vita e la delusione per il mancato riconoscimento di un ruolo e di una competenza professionale, che pure aveva costruito con tanta fatica. Alessandro Bozzo decide di togliersi la vita lasciando increduli e sgomenti la famiglia, i colleghi e gli amici il 15 marzo 2013. La PM della Procura di Cosenza, Maria Francesca Cerchiara nella sua requisitoria riporta quanto emerso dai colleghi giornalisti «di Alessandro – dice – non andavano bene due cose. La prima il suo carattere indipendente, e all’editore non piacevano le persone che ragionavano con la propria testa, ad Alessandro nessuno poteva dire che doveva fare. Non si adeguava. E poi aveva il contratto con l’articolo 1, non andava bene, non poteva essere licenziato. E almeno una volta a settimana ci veniva chiesto di farlo, di mandarlo a casa». Continua «Alessandro non si è piegato, non si poteva piegare. Alessandro amava la vita. Era uno che ragionava con la propria testa. Voleva essere libero, la libertà che ciascuno di noi vorrebbe esercitare». Non è facile sentire parlare in una requisitoria di libertà, di autodeterminazione, eppure è accaduto. Si è parlato della libertà di esercitare la propria professione, di seguire le proprie passioni, di poter scrivere liberamente cercando la verità. Alessandro Bozzo, che per le sue inchieste spesso aveva attirato le attenzioni intimidatorie di politici locali o esponenti di organizzazioni criminali, non si è mai autodefinito come un “giornalista antimafia”, ma solo un giornalista in cerca di verità. Refrattario alle etichette, voleva solo che venisse riconosciuta la sua esperienza e la sua capacità. Per questo non ha mai ceduto, ma come raccontano familiari e colleghi, trovava sempre il modo di lanciare un segnale, una parola, una didascalia. Con il suo stile pungente non ha fatto sconti a nessuno: ha chiesto conto di una targa promessa e ancora non messa dopo un anno dalle passerelle ufficiali in ricordo di una vittima innocente della ’ndrangheta; ha urlato contro chi ha pubblicato le foto di uccellini uccisi dai bracconieri; ha denunciato abusi e appalti truccati. E ha lasciato un grande esempio. Lo ricorda così Alfredo Sprovieri in un post su un social network di qualche giorno fa, che richiama fatti attuali: «Ci portarono in redazione un video scandalo che stava circolando nei telefonini anche se i social non c’erano ancora; lo vedemmo tutti insieme, poi ognuno tornò al proprio posto. Non avremmo mai dato quella notizia e quando Alessandro con una battuta fulminante paragonò la ragazza ad un uccellino, potemmo ricordarci anche il perché: giornalismo significa prendersela con il potente». Questo era il giornalismo per Bozzo: lo ricorda Marianna, sua sorella «è nato giornalista. Era innamorato del suo lavoro. Della verità». Oggi ha un suono ben diverso quello che Alessandro Bozzo scrisse nel 2012 su una vicenda che ha ancora oggi intrecci tra politica e malaffare sulla edilizia sociale: «In un mondo normale se uno fa il proprio dovere nell’interesse dell’azienda per cui lavora e della comunità, fa carriera. E viene trattato con riguardo, rispettato e stimato. Perché ha un’etica professionale e rispetto della legge o semplicemente perché è onesto e non gli piacciono furbetti e prepotenti. Ma Cosenza non è una città normale. Qui se uno fa il proprio dovere lo assegnano ad altro incarico e se si ribella gli incendiano pure la macchina. Per far carriera a Cosenza bisogna essere vigliacchi senza onore o imbroglioni dall’avidità insaziabile, sempre pronti a inginocchiarsi davanti ai prepotenti». Di Alessandro giornalista calabrese si deve avere il dovere di parlare, di raccontare il suo stile e il suo modo di guardare in faccia la realtà calabrese.
Alessandro Bozzo, giornalista precario. «U guagliune s’à da adegua, altro che libertà di autodeterminazione» sono le parole riportate da una testimonianza durante la requisitoria. Alessandro sapeva che quel cambio di contratto era un segnale forte, la perdita di ogni certezza lavorativa, sia in termini di sicurezza che di libertà. La minaccia latente era dietro l’angolo, lo dicono in molti durante il processo. «funzionava così, proposta di trasferimento, cambio di contratto. Poi il licenziamento o sei dentro e accetti o sei fuori». «U mannamu a Catanzaro, magari là non darà fastidio, magari sta più sereno» riportano i testimoni in aula. «Era come avere una scimmia sulla spalla e un cinghiale sullo stomaco, per far capire l’ingerenza, la pressione. Altro che libertà di autodeterminazione». Una situazione insostenibile da più punti di vista. È per questo che la firma di quel contratto da tempo indeterminato a tempo determinato è stato un punto di non ritorno nella vita di Alessandro che quel giorno commentò: «ho firmato una estorsione». Da allora è uno stillicidio, e le pagine del diario non lasciano spazio alle interpretazioni. Lo scrive, con il suo stile, mese dopo mese. «Oggi è un mese da precario», «oggi sono due mesi da precario» e poi ancora «sarò disoccupato. Sono un morto che cammina, giornalisticamente parlando. Non so come riesco a andare avanti, sono arrivato alla conclusione che non merito questo trattamento». «Lo odio (rivolgendosi all’editore) perché pensa che precarizzandoci e riducendo gli stipendi otterrà quello che vuole. Rendere i giornalisti licenziabili facilmente». Il mutuo da pagare, la famiglia di mandare avanti, la fatica di una quotidianità precaria che obbliga a mettere da parte se stessi. Alessandro lo scriva anche il 1 maggio: «1 maggio festa del lavoro. Non so cosa ci sia da festeggiare oggi. Dovrebbero chiamarla festa dei precari, e dei disoccupati. E’ il primo anniversario del precariato», ricorda che da un mese è precario contro la sua volontà. «Il termine precario – continua la Pm –  non piaceva ad Alessandro, non lo accettava. Alessandro aveva la schiena dritta. Era stato relegato in uno scantinato. Insieme ad altri che diventano bravissimi giornalisti. Sono stati umiliati, ce lo dicono i colleghi». Tutto questo non può non imporre una riflessione sul grande tema del precariato, del giornalismo e dell’editoria. E’ per questo che questa sentenza deve anche essere considerata nel panorama generale del lavoro e della dignità del lavoro, della sopravvivenza. «E’ una piccola storia di verità e giustizia, una storia di sud – come ha recentemente affermato la ricercatrice sociale Ludovica Ioppolo durante un intervento pubblico – una storia di libertà di stampa negata, di dignità dei lavoratori violentata». Una sentenza – della quale si aspetta di leggere le motivazioni tra novanta giorni – che però già da ora lancia un segnale forte all’editoria calabrese nello specifico, ma al mondo del giornalismo e del precariato. Un segnale per quel precariato che è potere nelle vite di molti, di chi è costretto a scegliere tra la rinuncia delle proprie libertà e diritti, della dignità e la semplice sopravvivenza quotidiana. Ce lo stanno raccontando i giornalisti, donne e uomini professionisti che sono rimasti, che sono andati via, che non ne hanno più parlato, che sono stati presenti nelle udienze o che camminano intorno al tribunale senza trovare la forza di entrare. Ognuno e ognuna con un carico di sofferenza, di tormenti che nessuno mai potrà giudicare. Perché è un vissuto così intimo e profondo che ogni parola sarebbe fuori posto. Rimane sì, un segnale perché questo potere, può essere scalfito, messo in discussione, può essere nominato e quindi lottato.
Il processo e l’accompagnamento di Santo della VolpeLibera. Associazioni nomi e numeri contro le mafie nella sua organizzazione territoriale si è interessata della vicenda,  come si legge in una nota del 2014 pubblicata da Libera Cosenza: «Nella situazione attuale, nell’impossibilità di costituirci parte civile, Libera non smetterà di denunciare gli attentati alla libertà che vengono da testate giornalistiche asservite al potere, inchinate alle logiche di bieco mercato legate alle inserzioni pubblicitarie, piuttosto che impegnate a costruire spazi di democrazia e di informazione. La morte di Alessandro Bozzo ci ha messo davanti a una dura realtà costringendoci a pensare a quanto sia difficile nella nostra regione praticare la libertà di stampa e di informazione; quanto sia difficile perseguire un progetto di lavoro sano e degno e, al contempo, sognando una terra libera». Ma dietro questo impegno è oggi un dovere ricordare la cura e l’attenzione che di questa storia ha avuto Santo Della Volpe, nella sua qualità di direttore di Libera Informazione. Prima che la malattia lo portasse via, Santo Della Volpe non ha mai smesso di esserci, di denunciare pubblicamente le mancanze di chi era addetto al controllo, di scrivere e parlare di Alessandro e della situazione calabrese. Aveva anche proposto di intitolare una scuola di giornalismo in Calabria ad Alessandro Bozzo. Ma nessuno ha raccolto quel testimone. Santo della Volpe lo ha ricordato fino alla fine: «Libera Informazione è nata proprio per ricordare che l’informazione o è libera oppure non è informazione. Punto. Noi ci battiamo per questo. Contro tutti i condizionamenti, con battaglie comuni insieme al sindacato contro la precarietà e contro ogni mezzo per colpire l’indipendenza dei giornalisti, compresi i derubricamenti contrattuali “estorsivi”». Di sicuro lui sarebbe stato presente in Tribunale il giorno della sentenza, dove troppe assenze, invece hanno pesato.
Una storia tutta ancora da scrivere. Una lotta comune, che oggi ha assunto forme diverse e nuove. E’ un primo passo. La storia di un mondo precario quotidiano, il cui potere si traduce nella vita di donne e uomini. La storia di percorsi che vanno avanti, di memoria e di impegno contro i poteri e le sopraffazioni. Aspettando le motivazioni della sentenza, intanto la Procura di Cosenza non ha perso tempo dichiarando che «pur prendendo atto che con la sentenza emessa è stata riconosciuta validità all’impianto accusatorio la procura comunica che avanzerà appello alla sentenza ritenendo assolutamente inadeguata la pena irrogata la pena rispetto alla gravità dei fatti contestati e che proseguiranno le indagini per ulteriori fatti reato emersi nel corso del dibattimento». Facendo così seguito alle richieste del pubblico ministero della Procura di Cosenza, Maria Francesca Cerchiara, che ha chiesto la condanna a quattro anni di carcere per l’imprenditore Citrigno e al termine della sua requisitoria, ha chiesto anche la trasmissione degli atti alla Procura perché durante il processo sono emersi «nuovi elementi e ipotesi di reato di estorsione e violenza privata» esercitate da Citrigno in relazione a «condotte diverse e autonome da questo procedimento e perpetrate nei confronti di Bozzo e di altri quattro giornalisti». Una storia quindi, tutta ancora da scrivere.