La rotta...

La cosa più importante per chi non ha potere è avere almeno un sogno
Da "La terrazza proibita" di Fatima Mernissi

domenica 2 ottobre 2016

Il tre ottobre a Lampedusa. Memoria e Mediterraneo.


Le parole dei sopravvissuti.
I confini sono da tempo la mia passione. Ho iniziato a studiarli, a usarli come categoria, a leggere tutto ciò che ne facesse anche minimamente riferimento, a viverli. Da Elogio del margine di bell hooks, a La terrazza proibita di Fatima Mernissi, ai saggi sociologici e filosofici. E studiando le migrazioni, non si può non attraversarli questi confini, farne esperienza, passarci attraverso. Attraversare un confine significa renderlo frontiera, vivere quello spazio tra una linea e l’altra.
L’ho imparato attraversando un muro, qualche anno fa, quel muro in Palestina che ti costringe a pensare alle dinamiche di potere e di controllo, a quell'atto sociale e politico che è la creazione stessa dei confini. Scegliere il confine come categoria induce ad un’altra conseguente scelta, quella di vivere il confine, di sceglierlo come luogo – spazio e tempo- di ricerca. Per questo mi sono trovata prima nel Pas de Calais, poi in Sicilia e poi ancora a Pantelleria e poi ancora a Lampedusa. Una scelta precisa, quella di studiare le migrazioni a partire dai confini, dai quei luoghi di passaggio -dall'estremo nord all'estremo sud- per coglierne dinamiche, aspetti e soprattutto per “mettere a lavoro” quelle categorie così tanto certe, ancore sicure.
Chi in un modo o nell'altro è stato a Lampedusa, ha certamente cambiato il punto di vista sulle migrazioni e sul Mediterraneo. Stare a Lampedusa significa decostruire quel processo di costruzione dell’immaginario migratorio fatto di stereotipi e pregiudizi, ma anche di chiavi interpretative ormai obsolete, che poco servono a leggere la realtà. In questi giorni sentiremo parlare di Lampedusa, delle “stragi di Lampedusa”, del tre ottobre.
La riflessione che da un po’ di tempo mi porto dentro ha a che fare con la dinamica per cui si continua a delegare a Lampedusa quel ruolo di frontiera unica, come se si potessero concentrare tutte le frontiere marittime in un unico punto. Quell'unico luogo che nella sicurezza della deresponsabilizzazione, permette alla società di non trasformare la memoria di quello che è accaduto in memoria collettiva. Lampedusa viene definita “l’isola del rimosso” (Liberti 2008), luogo che permette attraverso grandi processi mediatici di essere visibile e allo stesso tempo, di rendere invisibile quello che accade quotidianamente in tutto il Mediterraneo. Visibilità e invisibilità si intersecano quindi con il tema della memoria, individuale e collettiva.
Stare a Lampedusa significa questo: comprendere quel legame sottile tra l’esperienza dei singoli e la narrazione collettiva, tra la memoria dei luoghi fisici con quella mediatica e virtuale. Non è facile parlare di Lampedusa cercando di schivare la retorica e superando la dicotomia dell’isola che si muove tra accoglienza e chiusura. Lampedusa è uno spazio, è un tempo, e uno spazio-movimento come diceva Bourdieu (1987), è uno spazio migratorio, è una frontiera: è quel luogo del lontano che diventa vicino, e del vicino che si allontana.
Per capire questo legame tra le storie individuali e quelle collettive, la scelta metodologica da fare è quella dell’ascolto, dell’incontro. Dopo un anno esatto da quel 3 ottobre decisi di stare a Lampedusa, volevo capire come l’isola avesse vissuto quell’anno così mediaticamente invasivo e volevo farlo dalla strada, dai bar, dalla spiaggia, ascoltando chi c’era. In quei giorni ho esattamente compreso cosa intendesse Cuttitta (2012) nel suo libro “lo spettacolo del confine”: la ribalta teatrale, Lampedusa che da confine diventa frontiera e poi palcoscenico.
In quei giorni erano fortemente visibili quei mondi così diversi tra loro, uno fatto di servizi televisivi e interviste in uno spazio creato ad hoc in mezzo a quello che allora era il “cimitero delle barche”, l’altro dei lampedusani, quasi infastiditi da questo clamore, e che invece avrebbero voluto raccontare un’altra storia, ostacolati però da quel pudore e rispetto verso la tragedia che loro stessi avevano vissuto.
Il silenzio dei soccorritori dice molto, racconta tanto del 3 ottobre e di tutti quei naufragi taciuti, e molto dice- o meglio ha detto visto si sta sviluppando una produzione filmica proprio su questo- la non visibilità di questa narrazione nel discorso pubblico.
E così che superando la diffidenza dovuta alla presenza in anni di centinaia di ricercatori sociali e giornalisti, nell'informalità di una conversazione viene fuori quel silenzio, tradotto in sguardi, parole, gesti. Le migliori “interviste” per me sono state così, nella quotidianità di un caffè, di una panchina, in una sala d’attesa in aeroporto.
“Nel 2011, in quei giorni, io e mia moglie lasciavamo da mangiare sul tavolo, così quando entravano lo trovavano. Erano disperati, cercavano da mangiare. Anche se entravano da ladri in casa, non rubavano niente. Cercavano da mangiare”. Lo ha detto un signore accompagnandomi gentilmente a prendere l’aereo, e credo di non aver mai avuto una descrizione migliore di quella che mediaticamente era nominata “l’emergenza a Lampedusa”. Un riconoscimento del proprio essere situati e della solidarietà che non si traduce in rabbia e divisione- pur nella stranezza di questa narrazione- ma in dinamiche quotidiane di solidarietà che di sicuro, non ci si aspetta.
Un ritardo di un aereo da Tunisi mi ha permesso di stare ore a parlare con un anziano signore, un vecchio pescatore di quelli che staresti ore ad ascoltare.  Abbiamo parlato della pesca, delle difficoltà di oggi, dei mutamenti che ci sono stati nei decenni. “Ma ci sono giorni in cui maledici questo lavoro”, mi ha detto con gli occhi pieni di lacrime “quei giorni quando insieme ai pesci tiri su altro, è una cosa terribile, è una cosa terribile”.
Basta, non è servito aggiungere altro. Non c’è stato bisogno, perché quel silenzio di quegli attimi serviti a mandare giù il magone, aveva già detto tutto. Aveva spiegato senza dirlo, di come in tutto ciò si dimentica di ritornare ai corpi, alle persone, all'umano.
L’ascolto dei soccorritori e ancora di più dei sopravvissuti, permette di ritornare a ciò che è terribilmente umano nella sua disumanizzazione. Terribilmente umano nelle storie di tante donne e di tanti uomini, nelle loro scelte, e come mi ha da poco ricordato un giovane rifugiato, dei loro sogni.
È necessario quindi riconoscere e ascoltare i sopravvissuti, provare a vivere questo tre ottobre attraverso l’ascolto perché è con la parola che si può dare significato alla relazione tra presente, passato e futuro. Si dovrebbe cogliere l’occasione del tre ottobre per fa sì che questi temi possano entrare anche nel discorso pubblico calabrese, terra di approdo per tante persone, caratteristica poco messa a tema. La Calabria è terra di accoglienza, terra di modelli nuovi e nuove pratiche, di sistemi forse legali ma sicuramente poco trasparenti e giusti, che in ogni caso fatica a riconoscersi come luogo mediterraneo e frontiera marittima.
Da qui, dalla Calabria, anche essa luogo di confine, è quindi possibile comprendere come quella del tre ottobre e del Mediterraneo in generale è una memoria senza dimora, perché è il risultato di un processo di dislocazione, che è annullamento delle responsabilità. Lampedusa è diventata questo, il luogo della dislocazione, il luogo del rimosso ma che in questa dinamica di contraddizioni e negazioni diventa il luogo che permette la rimozione stessa del lutto del Mediterraneo.
Tahar Lamri durante un incontro pubblico proprio a Lampedusa in occasione del primo anniversario del tre ottobre ha detto “la coscienza di trecento e più persone morte è elaborazione del lutto, permette di sentire che da qualche parte sei cattivo, e devi poi farci i conti”, e per questo che i tanti eventi commemorativi di questi giorni e gli artefatti non diventano costruzione politica, perché dovremmo farci i conti.
Utili per comprendere quello che stiamo vivendo sono le parole di Marta Vignola in La memoria desaparesida che parla di spazi e tempi della memoria, delle contraddizioni del “valore che si attribuisce ad una data (che) tende a mutare con il trascorrere del tempo a seconda che si cristallizzino e si istituzionalizzino differenti visioni”. 
Le “date ed anniversari sono dunque, congiunture di attivazione delle memorie dei differenti attori sociali nell'ambito della sfera pubblica, si riorganizzano gli eventi, si capovolgono spesso gli schemi esistenti, appaiono voci nuove e riemergono voci antiche che domandano, raccontano, creano spazi intersoggettivi, condividono ciò che hanno vissuto, ascoltato, omesso” (Vignola 2012 p. 33).
Il tre ottobre è la Giornata nazionale in memoria delle vittime dell'immigrazione, per ricordare chi "ha perso la vita nel tentativo di emigrare verso il nostro paese per sfuggire alle guerre, alle persecuzioni e alla miseria" (art.1- legge 21 marzo 2016, n. 45).
Ma il tre ottobre può essere l’occasione per ascoltare quei silenzi che non troveranno spazio nel clamore dei media di questi giorni, per far riemergere quelle voci, nuove e antiche, che rappresentano il punto di partenza per rielaborare e trovare modi nuovi per parlare di migrazione e di Mediterraneo. Deve diventare l’occasione per quei territori come la Calabria, che non riescono a riconoscersi come soggetti mediterranei, come attori politici che possono fare la differenza nella narrazione, nell'analisi e nella pratica politica. Senza dislocamenti e deresponsabilizzazioni.
Perché non è colpa della migrazione, ma delle mancanze politiche europee e mondiali, della gestione criminale del traffico di esseri umani e di tanto altro. Di sicuro non è colpa di chi desidera e di chi sogna, e di sicuro non è colpa del mare.

“Con questo vento non c’è possibilità” disse il Vecchio. E mi portò dove la strada tra la spiaggia e le case moriva.
C’era un’altura, piccola, di terra di risulta. 
Mi tenne lì, mi poggiò le mani sulle spalle; 
voleva vedessi e capissi. 
“Questa cosa qui non l’ha fatta il mare” disse. 
Quel che c’era da capire lo capii.

(Pazzano S., Beltempo, SabbiaRossa 2014)




Per approfondire:  Il cimitero delle barche


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